Uno dei film più notevoli della passata stagione cinematografica italiana è L’ordine delle cose di Andrea Segre, in dvd per CG Entertainment. Sul tema dell’immigrazione clandestina sono ormai parecchi i film, anche molto validi, usciti in Italia, ma Segre, che già aveva affrontato l’argomento con successo di critica con Io sono Li e La prima neve, qui cambia prospettiva, abbandonando l’identificazione col migrante in Italia e mostrando le gesta di un funzionario del Ministero degli interni in missione diplomatica in Libia per fare accordi con i ras libici e, indirettamente, con i mercanti di uomini e donne per fermare alla fonte i flussi migratori. È un film lineare e antonioniano ma ancor di più brechtiano nella mancata redenzione del protagonista che induce lo spettatore a ritirare ogni identificazione emotiva e a fare i conti col meccanismo immorale che spinge a scegliere tra una visione etica del mondo e una cinico-realista senza saperle integrare. Ha dichiarato Segre: «Il film è un appello alla nostra dignità: vogliamo continuare a stare in questo ipocrita benessere dove le cose non esistono perché non le vediamo, in questa banalità del male - che è l’altra faccia della medaglia - o vogliamo metterci nella posizione di non dover scegliere tra etica e ragione di stato, ma provare a farle stare insieme?». A un certo punto il protagonista visita con la moglie la galleria di palazzo Barberini a Roma e si interroga davanti al Ritratto di Beatrice Cenci di Guido Reni.
Si chiede e chiede cosa esprimano gli occhi della ragazza. «Paura», è la risposta, la stessa che troverà negli occhi di una ragazza libica che solleciterà il suo aiuto, la sua umanità. La stessa paura che forse prova lui stesso, destinato a perdersi nel complesso, barocco, risiko libico e noi con lui. Per questo l’accusa di eccesso di geometria e di algidità mossa da alcuni critici al film non coglie il calcolato rischio brechtiano che Segre nel suo film più ambizioso lucidamente si assume. Una scommessa, per chi scrive, vinta.

