«Io non provo orgoglio per tutto ciò che come poeta ho prodotto. Insieme a me hanno vissuto buoni poeti, altri ancora migliori hanno vissuto prima di me, e ce ne saranno altri dopo. Sono invece orgoglioso del fatto che, nel mio secolo, sono stato l’unico che ha visto chiaro in questa difficile scienza del colore, e sono cosciente di essere superiore a molti saggi».
Così si esprimeva nel 1829 uno dei massimi letterati e pensatori di ogni tempo, Johann Wolfgang Goethe. Ci sarebbe di che meravigliarsi; pochi ricordano
infatti l’estrema importanza che attribuiva ai propri lavori sulle piante e sui colori l’autore del Werther e del Faust. Eppure nel 1810 aveva
pubblicato a Tubinga Zur Farbenlhere, ossia La teoria dei colori, un complesso saggio con intenti scientifici basato soprattutto sull’osservazione
empirica, in cui si criticano le conclusioni di Newton - oggettivamente invece esatte - per il quale i colori non sono proprietà dei corpi ma della
luce. Quest’ultima quindi non era più una sostanza elementare ma composita perché data dalla somma dei colori dell’iride. Al contrario, per Goethe, i
colori sarebbero il risultato di un offuscamento della luce o di un’interazione di questa con l’oscurità. Primari sarebbero il giallo e il blu,
indicativi di due opposte polarità: chiaro e scuro, positivo e negativo. L’interesse non va rivolto agli aspetti fisico-ottici ma piuttosto alla
percezione fisico-sensoriale, con una sostanziale differenza tra l’oggetto fenomenico, lo spettro ottico di Newton, e quello percettivo-sensoriale
conoscibile attraverso i sensi. È l’uomo, nella sua ricerca di armonia, che attraverso i sensi sceglie la “propria” realtà. Si esalta il collegamento
tra l’occhio e le emozioni, così come l’attenzione alla post-immagine che resta nella retina anche dopo la visione stessa.
E ugualmente importante è l’incidenza dell’andamento circolare nella disposizione dei colori, assimilabile alla forma dell’occhio umano: quest’ultimo, a seconda dei punti di vista, accentua la “soggettività” del reale.