Per un viaggiatore spagnolo dell’Ottocento, Napoli possedeva «più chiese della stessa Roma». Qualche anno fa la curia ne segnalava oltre duecento, tra chiese più o meno grandi, oratori, cappelle votive; ma c’è chi ne conta perfino quattrocentocinquanta. Su un dettaglio, tuttavia, entrambe le fonti concordano: almeno la metà sono chiuse. Per il regesto curiale, appena settantanove in tutto svolgevano ancora la propria funzione originaria e accoglievano i fedeli. Altre centoventitre, «cancellate dall’itinerario della cristianità» come scrive Paolo Barbuto, un attento cronista di questi malanni, di cui quarantanove trasformate in officine, ristoranti, negozi di scarpe, autorimesse. Infine, almeno settantacinque sono semplicemente dimenticate: lasciate a un destino di degrado, di abbandono e di distruzione più o meno prossima.
Già Federico Zeri spiegava che «l’Italia passa per essere la terra dell’arte, ma rischia di diventare la terra del funerale dell’arte; perché ovunque si
vada, in qualsiasi luogo, in qualsiasi chiesa, si trova qualcosa di molto importante culturalmente, artisticamente, che sta andando in rovina»(*).