Arrivare a Parigi, attraversare rue de Rivoli e vedere una serie di immagini proiettate sulla facciata del Musée des Arts Décoratifs dedicate a Gio Ponti, insieme al manifesto programmatico di Italo Lupi, è una grande emozione, perché raramente accade che una esposizione, dedicata a un architetto inventore, sia in grado di parlare del nostro paese, senza complessi e protagonismi, facendo emergere concretamente, dagli anni Venti del secolo scorso, cosa significa “essere italiani”; magari perché, come lo stesso Ponti scriveva, «basta essere italiani per vivere pienamente il proprio tempo».
Più di cinquecento opere, dalle prime straordinarie esperienze fatte con Richard Ginori dal 1921, esposte in teche di cristallo appositamente disegnate
da Jean- Michel Wilmotte, come tutto l’allestimento, fino ad arrivare alla ricostruzione, filologicamente perfetta, di sei spazi abitati, a cominciare
dall’albergo Parco dei principi di Sorrento, da interni dove, a partire dalle piastrelle (riprodotte da Ceramica De Maio) ai mobili (rimessi in
produzione da Molteni) e a opere prestate da collezionisti, tutto parla la nostra lingua, senza mai cadere in trionfalismi e retoriche nazionalistiche.
I curatori, Salvatore Licitra, responsabile degli Archivi Ponti, Olivier Gabet, Dominique Forest e Sophie Bouilhet-Dumas, insieme a Wilmotte e Lupi
hanno ricostruito una storia esemplare, dove protagoniste sono le arti applicate, dai vasi ai piatti, al design di oggetti e sistemi di arredo,
all’architettura, fino ad arrivare a tutti quei dettagli che fanno di un progettista il costruttore di un’estetica diffusa, ben piantata nella cultura
del proprio paese, un’estetica che è stata capace di delineare il gusto borghese di un’epoca che arriva fino a noi senza perdere nulla della sua
eccezionalità.