«Solo, senza fidel governo et molto inquieto de la mente» scriveva il 17 dicembre 1545 Lorenzo Lotto nel suo testamento. Era a Venezia, in uno di quei ritorni nella città natale che segnano la sua vita errante tra Veneto e Marche, Bergamo e Roma. In perenne crisi esistenziale, con problemi economici, alla ricerca di apprezzamenti lavorativi.
Due anni dopo, nel 1547, Pietro Aretino sottolineava malignamente come Tiziano lo avesse «superato nel mestiero del dipingere », mentre Lotto era il
primo «ne l’offizio de la religione». Lui era rimasto malissimo. Iniziava così il suo ultimo decennio di vita, tra inquietudine e declino. Il 1° luglio
1557 era già morto nella Santa casa di Loreto, dove dall’agosto 1552 aveva trovato riparo presso i frati «con tutte le sue robe» come scriveva nel
Libro di spese diverse.
Eppure Lotto non era meno bravo di Tiziano o di altri geni del Rinascimento. Ritrattista eccezionale, pittore di
complesse pale d’altare e di allegorie profane. Inventore di forme nuove, nervose e vibranti, sensibile ai tempi, ma con un linguaggio personale, tagli
e gesti anticonformisti, colori ricchi e smaglianti. Un gigante.
A riconoscerlo pienamente sono stati i posteri, a cominciare da Bernard Berenson con la prima monografia sull’artista nel 1895, per continuare con gli studi di Pietro Zampetti a fine anni Sessanta del Novecento, e poi libri e mostre sino a oggi. Tra le ultime rassegne quella al Prado sui ritratti, conclusa nel settembre scorso per passare poi alla National Gallery di Londra dal novembre 2018 al febbraio 2019.
Ma l’omaggio più grande glielo dedicano le Marche - paese martoriato dal terremoto del 2016 -, dove Lotto lavorò incessantemente in diversi periodi
lasciando straordinarie testimonianze. La mostra Lorenzo Lotto.