Nella Tempesta di Giorgione (1507-1508; Venezia, Gallerie dell’Accademia) è raffigurata una maternità. La
donna è la zingara di cui lo stesso “Zorzi”, il pittore, si innamorò perdutamente, dipingendola più volte, fino alla sua morte. Una tela enigmatica -
come del resto quasi tutte le opere del maestro veneto del Cinquecento - che forse nasconde qualcosa.
La donna ci guarda, come volesse mormorare
qualcosa. Su un lato un aitante soldato esibisce il suo magnifico vestito mentre ammira l’amata. Le figure si collocano in un’ambientazione campestre,
lontano dalla confusione cittadina, al di fuori della società convenzionale. Si lasciano alle spalle la città, mentre le vestigia di una colonna
decretano una cultura al tramonto. Un temporale sta per scatenarsi su di loro. Il fragile ponte offre una possibilità superando un fiume che al tempo
stesso separa e collega. Forma di continuità, di unificazione, sorta di aiuto alle difficoltà della vita. L’acqua scorre lenta e silenziosa.
La madre, solitaria e pensosa, allatta il figlio incurante della propria nudità e della presenza dell’uomo. Rivolge a noi la sua attenzione. I due
personaggi appaiono come divisi da qualcosa, da un evento. Intorno, una fitta vegetazione costituisce il paradiso perduto che anticipa un dramma. La
quiete prima della tempesta.
Il pittore, fuori scena, tenta una ricomposizione “panica” dell’insostenibile scissione, ricorre cioè all’ordine della natura. Cosa vuole comunicare
l’artista con questi strani indizi? Si tratta forse della negazione di un sentimento tra i giovani? O l’allegoria di una triste storia d’amore? Il
dipinto ci arriva da lontano e i dubbi si accavallano ogni qualvolta si tenti di leggerne l’intensa e sofisticata simbologia.