parlare di occidentalismo a proposito di kimono può sembrare una contraddizione in termini, ma se indaghiamo la questione più a fondo la
conciliazione dei due opposti parrà non solo possibile, ma addirittura naturale. Ce lo racconta, a Gorizia, la straordinaria collezione di Lydia
Manavello.
Intanto cominciamo dal processo di cambiamento che investe il Giappone nella seconda metà dell’Ottocento con la restaurazione
Meiji, quando, dopo secoli di isolamento e di forzata apertura al commercio internazionale imposta dagli americani, l’imperatore Mutsuhito imprime
al paese un drastico cambiamento sul modello occidentale che investe tutti i settori produttivi, la scuola e l’esercito. In pochi anni il
paese del Sol Levante passa dal Medioevo all’età industriale. Contemporaneamente in Europa esplode la passione per l’arte e la cultura nipponica,
veicolata dalle xilografie ukiyo-e, che avrà grandi ripercussioni sugli artisti più innovativi dell’epoca a partire dagli impressionisti per
arrivare a Van Gogh, Cézanne, Gauguin, Toulouse-Lautrec e agli autori della Secessione viennese.
Il Giappone è invitato alle grandi
esposizioni universali nelle maggiori capitali europee e in grandi città americane. In seguito tecnici ed esperti occidentali vengono richiamati
in Giappone per insegnare le innovazioni più significative in settori che vanno da quello scientifico-industriale a quello militare.

“Haori”, sovrakimono corto informale da donna (terzo decennio del XX secolo), tecnica “katagami” (una sorta di stencil) su fili di ordito.