Yves Saint Laurent fu un autentico artista, un pensatore che ha segnato la storia del gusto e dell’arte del
secolo scorso. Eppure, lui amava definirsi «nient’altro che un sarto», intendendo visceralmente vincolare la sua figura a quella del suo
“oggettomondo”, trasformando al tempo stesso qualcosa in arte e qualcuno in oggetto, in un gioco di sovrapposizioni che portano a identificare
l’uomo con la sua passione.
Ebbene, l’approccio con cui bisogna leggere Antoon van Dyck non è dissimile.
La mostra che da poco ha
inaugurato a Torino è l’occasione perfetta per una riflessione sull’artista come specchio delle sue passioni, perché pochi artisti nella storia si
sono così fortemente legati proprio a ciò che è raffigurato nella loro arte.
La rassegna, difatti, lo chiarisce subito con il sottotitolo
«pittore di corte». Non semplice genio, artista barocco o ritrattista, ma proprio narratore di una “high society”, coi suoi pregi e i suoi difetti:
le curatrici hanno ribadito questo approccio in tutti i modi e posto particolare attenzione a una meticolosa narrazione del suo rapporto con la
committenza e con ciò che, di quel mondo, interessava a Van Dyck stesso.
Al suo titanico maestro, Pieter Paul Rubens, la mostra dedica
volutamente poco spazio, quasi a volere - almeno per una volta - lasciare che il protagonista non sia l’istrionico “grande vecchio” del Barocco
fiammingo, ma il suo più acuto allievo che, se non fu assoluto come Rubens, perfetto come Bruegel ed esplosivo come Jordaens, fu sicuramente il più
elegante di tutti.
L’avvio-confronto è proprio tra il monumentale e ironico Carlo Doria a cavallo di Rubens e la serie di ritratti italiani di
Van Dyck. Un rapido sguardo al Ritratto di Elena Grimaldi Cattaneo è più che sufficiente per vedere l’abisso che separa la gigantesca
cavalcatura di Rubens dalla grazia ritmata e delicata di Van Dyck. Entrambi giungono in Italia per studiare la doppia classicità (quella antica e
quella rinascimentale) e irrobustire le loro incertezze formali nordiche alla luce delle conquiste artistiche della penisola. Ma l’atteggiamento che
hanno è completamente diverso. Rubens è in Italia principalmente per studiare e preferisce avere un approccio distaccatamente professionale con i
numerosi clienti italiani, che rimarranno sempre un po’ diffidenti e tacitamente perplessi su quello che sentiranno come un Tiziano “mal riuscito”:
sia chiaro, il sentimento è reciproco e basta vedere la deflagrazione fiammingheggiante che Rubens avrà al suo ritorno ad Anversa, dove esprimerà il
suo meglio tra amici, mercanti, borghesi e soldi, tanti tanti soldi.
Anche Antoon è in Italia per studiare, certo: studiare come si fidelizzano
i clienti. Ed è così che inizia un infinito elenco di teste coronate (o pseudo tali) alle quali Van Dyck gonfierà l’ego con ogni espediente
artistico. Così i Bentivoglio, i Sale Brignole, i Balbi Durazzo, gli Spinola, tutti ritratti nella perfezione di chi non tollera l’ironia,
specialmente su se stesso. Sono ritratti di propaganda e non potrebbero che essere tali: ciascuno cristallizzato con un lavoro di sottrazione volto
a ridurre le persone a teste e mani che sorreggono i paramenti della propria persona. Se è vero che l’unica differenza tra l’uomo e le altre bestie
è la necessità di vestirsi, allora possiamo apprezzare ancora di più l’immensa capacità di Van Dyck di concentrare tutte quelle qualità che
piacevano ai suoi committenti. Così, di tela in tela, prende forma una galleria ideale di personaggi (e non persone) che animano un Seicento quasi
manzoniano: un Condottiero terrore dei soldati; una Principessa terrore delle cameriere, un Cardinale terrore dei novizi. In tale senso, un
vero peccato che sia assente in mostra quello che forse è il miglior ritratto italiano di Van Dyck, il Magistrato genovese,
conservato a Berlino.
Cosa può volere di più, un potente,
se non un genio ammaestrato?
Nel giro di pochi anni, Van Dyck seppe crearsi così la fama di ritrattista perfetto, perché internazionale, dannatamente bravo dal punto di vista
tecnico e, soprattutto, capace di stare sempre al suo posto. E cosa può volere di più, un potente, se non un genio ammaestrato? Prendete uno
qualunque dei suoi più grandi colleghi contemporanei e potrete percepire perché le corti europee facevano a gara per assicurarsi un ritratto di
Van Dyck. Scartati Rembrandt e gli olandesi (sozzi artigiani borghesi per gente borghese), i migliori italiani (troppo provinciali), Velázquez
(con le sue cifre esorbitanti), non restava che il nostro gentiluomo di Anversa, utile anche come mediatore politico e ciambellano dei delicati
cicalecci che, da una corte all’altra, erano funzionali a matrimoni, intrighi o semplici pettegolezzi.

