Del carattere altezzoso di Jusepe de Ribera (1591-1652), delle tresche con il perverso Belisario Corenzio e delle sue liti con il Domenichino e il Caracciolo già è stato scritto tutto(1), ma tali informazioni, unite a quelle relative al suo stile di vita disordinato e alle fughe dai creditori, rappresentano solo una base umorale non del tutto utile per comprendere il pittore della crudeltà. La corrente romantica, per esempio, ha cercato, sbagliando, di interpretarne la vita attraverso l’analisi dei soggetti delle sue opere trasformandolo così in un “maudit”.
Quello che in realtà si sa di lui è ben poco: nato in Spagna nella zona di Valencia, emigrò in Italia, viaggiò tra Parma e Roma impregnandosi di naturalismo caravaggesco e si trasferì infine a Napoli, dove con buone probabilità l’estro partenopeo forgerà l’epiteto di Spagnoletto.
Senza dubbio, parlando della sua arte, si nota in Ribera una tendenza alla ripetitività dei soggetti già messa in luce nel secolo XVIII da Bernardo De Dominici(2); nulla di strano, a parte il fatto che tali soggetti riguardano figure di vecchi o scene di tortura. Ci si dedicò con accanimento, studiando nel dettaglio le pose irregolari dei corpi cadenti e le espressioni sofferenti dei volti: i disegni e gli schizzi preparatori ci hanno lasciato oltretutto moltissimi dettagli.
Lo scorticamento di san Bartolomeo - forse proprio per l’efferatezza della scena - è stato un tema caro a Ribera, tanto da averlo iterato più di dieci volte con variazioni anche notevoli. L’iconografia dedicata ai martiri mostra di solito l’atto che conduce alla morte o al miracolo, con il santo in gloria o con la palma, retta con ieratica disinvoltura, e gli strumenti del supplizio utili per l’identificazione. Il San Bartolomeo conservato a Firenze a palazzo Pitti (1628-1630), però, ci mostra la preparazione, il mo mento che precede la violenza del carnefice.
