Dentro l'opera
SCULTURAE AMBIENTE DI LUCE
di Cristina Baldacci
Nel 1963 Dan Flavin (New York, 1933-1996) iniziò a produrre la serie di “neon” che da quel momento sarebbero diventati oggetti costanti del suo lavoro. Prima adoperò i tubi fluorescenti, di sola luce bianca, singolarmente, poi cominciò ad assemblarli l’uno con l’altro o a disporli in sequenza sulle pareti e, a volte, anche sul pavimento. Successivamente, alla luce bianca alternò quella gialla, rossa e blu, aggiungendo, in ultimo, un colore non primario, il verde.
Queste rigorose costruzioni di luce erano state precedute, tra il 1961 e il 1962, da piccoli quadri monocromi in masonite sul cui bordo alto Flavin aveva montato un tubo o un bulbo fluorescente per simulare sfumature e dissolvenze del colore pittorico. A queste prime prove aveva dato il nome di Icone, più che per commemorare il suo esordio da seminarista (aveva infatti iniziato a studiare per diventare un gesuita, carriera che poi abbandonò), per rendere omaggio alla pittura bizantina, di cui amava la doppia presenza, fisica e insieme magica. Ed è proprio questa duplice natura, materica e ideale, che caratterizza tutto il suo lavoro.
Con i suoi compagni minimalisti, soprattutto Carl Andre, Donald Judd e Sol LeWitt, tra anni Sessanta e Settanta Flavin si impegnò a rinnovare la scultura seguendo l’esempio radicale di due illustri predecessori dell’avanguardia storica: Vladimir Tatlin (a cui dedicò, citando il progetto per il Monumento alla Terza internazionale, uno dei suoi lavori, “Monument” for V. Tatlin, poi realizzato in trentanove esemplari e diventato tra i suoi più celebri) e Marcel Duchamp. Dalle “costruzioni” del primo imparò la concretezza geometrica e dai “ready-made” del secondo lo spirito concettuale. Di entrambi ammirava l’uso di materiali già pronti (industriali) che esprimono il tempo presente, l’attenzione al modo in cui l’opera è allestita e l’importanza data al contesto in cui viene presentata.
Più che installazioni di luce, quelle di Flavin sono infatti «situazioni», come preferiva chiamarle lui stesso, che cambiano a seconda dello spazio e del tempo creando un’atmosfera. La luce è per sua natura il medium più elusivo che ci sia, poiché è sia materiale, sia immateriale, e muta, non solo in base al supporto o canale da cui viene trasmessa (in questo caso un tubo di vetro), ma anche in base all ’intensità, che Flavin modulava di volta in volta per cambiare l’effetto dell ’opera. La luce perde così la sua principale funzione, quella di illuminare, e ne assume una puramente autoreferenziale: diventa soggetto e al contempo oggetto dell’opera.
Prima delle sperimentazioni dell’arte cinetico-programmata, pop, povera, minimalista e concettuale, fu Lucio Fontana a usare i tubi fluorescenti come “ready-made” già nel 1951 (anche se l’invenzione del neon risale al 1912, ci volle quasi mezzo secolo perché fosse scoperta e adottata dagli artisti), quando realizzò la Struttura al neon per la IX Triennale di Milano. Flavin fece il suo primo ambiente, con luce ultravioletta, nel 1968 per la Documenta di Kassel. In Italia, tra i suoi ambienti più riusciti, ci sono quelli per villa Panza a Biumo (Varese) e per Santa Maria Annunciata a Milano, la «Chiesa Rossa» progettata da Giovanni Muzio nel 1932. Quello milanese (Untitled, 1996) è stato l’ultimo ambiente di luce di Flavin, che finì il disegno poco prima di morire nel novembre del 1996, lasciando ai posteri il compito di completare l’opera.