6x 6 cm, il formato prediletto da Francesca Woodman per i suoi scatti, piccoli riquadri in bianco e nero, fotogrammi discreti che sembrano voler
dissolversi nello spazio. Inquadrature imprecise, immagini sovraesposte, sfocate o mosse, sono il risultato di una realtà fluttuante e
imperscrutabile, ricreata meticolosamente dall’artista. E qui inizia il gioco. «Non bisogna pensare a Francesca come a una sognatrice. Francesca
era qualcuno che sapeva e voleva esattamente ciò che aveva nella testa»(1). Le immagini di Francesca Woodman inquietano e disorientano,
sono fortemente perturbanti non solamente a causa dei soggetti e delle atmosfere misteriose che rappresentano, per quella loro vertiginosa essenza
eterea ed evanescente forzatamente evocativa della biografia della loro autrice lanciatasi nel vuoto da un edificio di New York a soli ventidue
anni; le opere della giovane artista confondono innanzitutto perché creano un subitaneo gioco ambiguo con chi le guarda, sussurrando agli
occhi ed esigendo un ruolo attivo dall’osservatore che si trova inaspettatamente a essere complice e illecito testimone di intime fantasie e
stranianti sperimentazioni. In Francesca Woodman l’occhio si posa sull’obiettivo come sulla serratura di una stanza dimenticata, svuotata e appena
chiusa a chiave. Una stanza anonima che è una voragine, universale metafora dell’inconscio. L’artista vede l’interiorità come un pericolante
non-luogo composto da porte scardinate o mai aperte, pareti scorticate, antiche specchiere. È lì che libido, memoria, sogno e immaginazione si
mescolano in un gioco infantile, messo in atto da Francesca Woodman in maniera innocente e provocatoria. Tutto è arcano nella sua sapiente
messa in scena: il corpo, lo spazio, gli oggetti, il tempo e la relazione tra questi e la psiche. L’artista disegna spesso dei bozzetti
preparatori per le sue immagini, da dove parte e poi sperimenta, interroga se stessa e l’altro, si mostra nuda con l’audacia della sua giovinezza
e un’ossessione per l’introspezione. Le sue opere sono quasi esclusivamente autoritratti, eppure il volto vi è spesso celato e soprattutto si ha
l’impressione che in una frastornante sovversione delle parti, l’osservatore si trovi dietro l’obiettivo trasformandosi, suo malgrado, nell’autore
delle stesse opere che sta fissando, in tal modo le sente proprie mentre non gli appartengono affatto. Si instaura così un sentimento di
disagio. Francesca Woodman, divertita, interagisce con chi la osserva: si svela, si nasconde, lacera l’essere e la carne, la sua, bellissima,
levigata, insopportabile involucro che ingabbia l’anima, varco da valicare. Nelle foto l’artista svanisce e ricompare, impalpabile, fragile,
proveniente da un ignoto altrove, vicino e domestico, eppure talmente avulso da provocare un brivido nel guardarla.
Francesca Woodman nasce a
Denver, in Colorado, il 3 aprile 1958, in una famiglia d’artisti: il padre George, pittore (si cimenterà nella fotografia dopo la morte della
figlia), la madre Betty ceramista e il fratello maggiore, Charlie, videoartista. Francesca Woodman cresce in una dimensione di confronto e
riflessione tra diverse espressioni artistiche. Appena adolescente riceve una macchina fotografica dalla quale non si separerà più: «Francesca era
semplicemente smaniosa di scattare foto(2)»

