Ci sono stati artisti, specialmente nel contesto dell’arte concettuale e della poesia verbo-visuale degli anni Sessanta e Settanta, che hanno fatto della scrittura la loro cifra stilistica. Roman Opałka (1931-2011) è stato uno di questi, insieme a colleghi a lui affini per indole e operosità, come Irma Blank, Hanne Darboven e On Kawara. Ognuno di loro ha sviluppato un particolare linguaggio - non sempre dal valore propriamente semantico - fatto di simboli, segni o numeri, con cui ha registrato il tempo della propria esistenza, gran parte del quale passato al lavoro. Dire il tempo è non a caso il titolo della mostra dedicata a Opałka(*), in corso nelle due sedi della Galleria Building a Milano (fino al 20 luglio) e della Fondazione Querini Stampalia a Venezia (fino al 24 novembre).
Per tutta la vita, con ben poche eccezioni, Opałka ha lavorato fondamentalmente a due sole serie tra loro complementari: i dipinti intitolati
Détails (dal 1965) e gli autoritratti fotografici in bianco e nero di poco successivi (dal 1968). Si tratta in entrambi i casi di due
misurazioni del tempo a cui l’artista franco-polacco è riuscito a dare forma scegliendo, da un lato, i numeri come alfabeto visivo originatore di una
successione potenzialmente inesauribile - per questo nel titolo della serie è sempre presente anche il riferimento all’anno di inizio della serie e al
numero uno seguito dal simbolo dell’infinito (1965 / 1-∞) -; dall’altro, il proprio volto scolpito, giorno dopo giorno, dai segni dell’invecchiamento.
Opałka ha dunque eletto la ripetizione e la serialità a metodi di lavoro, così come a metafore del procedere uniforme della vita.
«Ogni dipinto che faccio è un dettaglio di questa unica tela, un frammento dell’intero, e porta con sé un frammento di un tutto», ha affermato l’artista
riguardo al procedere lento ma inarrestabile di questo suo esercizio monacale, paragonabile per il rigore e la perseveranza con cui è stato portato
avanti a una forma di autocontrollo, nonché di catarsi. È come se l’allinearsi dei numeri sulla tela (ogni nuova tela è la prosecuzione della
precedente) gli fosse servito per tenere a bada lo scorrere del tempo e, insieme, tenere uniti i singoli frammenti di un tutto più grande, di cui ha
cercato di avere, per quanto possibile, una visione complessiva. Anche se un simile traguardo rimane in fin dei conti soltanto illusorio. Ma questo non
è un problema, perché nel lavoro di Opałka, come in molta arte concettuale, è più importante il processo del punto di arrivo.
Per quasi mezzo secolo, l’artista ha continuato a tracciare i numeri in progressione servendosi di un pennello dalla punta finissima e riempiendo ogni
centimetro della superficie pittorica per poi ricominciare esattamente da dove aveva interrotto su una nuova tela. La regolarità di questo suo procedere
è data anche dalla conformità delle tele, che hanno tutte la stessa dimensione, uguale alla porta del suo studio, e dall’uso di due soli colori: il
bianco dei numeri e il grigio dello sfondo. Un minimalismo e un’astrazione dei mezzi pittorici che vengono accentuati nel tempo dal sempre minore
contrasto tra sfondo e numeri che Opałka ottiene schiarendo sempre più, a partire dal compimento del primo milione di quadri nel 1972, il grigio, a tal
punto da rendere la sua calligrafia quasi illeggibile. Con la scomparsa dell’artista si è chiusa una singola esistenza, ma lo scorrere del tempo
continua, e l’ultima tela a cui Opałka stava lavorando non poteva che rimanere non finita.