Lo studio di un artista è molto più di uno spazio fisico. E quando si svuota, l’energia si disperde nel tempo e nello spazio. Avviene da sempre in Italia, e continuerà ad accadere se le istituzioni non comprenderanno l’importanza di proteggere un’eredità culturale che, tranne casi eccezionali, non sopravvive ai propri artefici.
Si contano sulle dita di una mano gli studi dei grandi maestri rimasti intatti, capaci di raccontare percorsi, associazioni mentali, frequentazioni. O
pronti a ospitare al proprio interno nuove generazioni di artisti, come avviene, per esempio, in Francia. Se fosse successo, forse avremmo una
percezione più viva della storia dell’arte, e Margutta, Brera, “Diladdarno” non sarebbero diventati giganteschi bed & breakfast.
Qualcosa è stato fatto. Molto c’è da fare. Il Consiglio di Stato il 5 dicembre 2017 ha, infatti, definito lo studio d’artista come «universitas rerum»
della vita professionale: «Traccia visibile dell’unicità delle sue attitudini individuali di produzione e ricerca», contestualizzando il decreto
2004/articolo 51, che si limitava a tutelare solo spazi già notificati. Con situazioni grottesche, come quella che colpì lo studio di de Chirico, non
ritenuto tale perché non corrispondeva «alla tradizionale tipologia “a lucernario” » come decretò l’allora Soprintendenza comunale. Forme di
salvaguardia ancora insufficienti, che richiedono nuove tutele giuridiche, finanziamenti certi, strutture dedicate.