Cesare Viel è un artista concettuale italiano, classe 1964, di base a Genova, attivo sin dalla fine degli anni Ottanta con diverse mostre personali e collettive nei più importanti musei sia italiani sia esteri. Nel suo lavoro, fortemente legato alla performance, è fondamentale il rapporto con il testo, gli scrittori e i poeti. Gli indizi sono già nei titoli delle sue personali: Mi gioco fino in fondo, per esempio, è del 2008 a Villa Croce a Genova; Facciamo fluire via le nostre frasi, del 2011 alla Fondazione Pietro Rossini a Briosco (Monza e Brianza); Tirandosi in disparte il più possibile, nel 2014 all’Università di Genova, lecture-performance ripetuta due anni dopo allo IUAV di Venezia e a Palermo nel 2018, durante un workshop al Caffè internazionale; Dar conto di sé nel 2017 alla Fondazione Remotti a Camogli (Genova), fino a Più nessuno da nessuna parte, la sua prossima personale, che apre al Padiglione d’arte contemporanea a cura di Diego Sileo a Milano il 12 ottobre.
È materiale evanescente, intangibile, preciso, il tuo, Cesare: testo, voce, poesia, tua, degli altri. Cosa significa per te fare arte?
Mettere insieme dei frammenti, delle tracce, mettere in moto un processo, un percorso, un ritrovarsi ma anche una forma di sperdimento. Lavorare con
l’invisibile, lavorare nel buio. Restare in attesa, come un animale selvatico, spesso nel silenzio e fidarsi di ciò che viene. L’arte è un appuntamento
con qualcosa/ qualcuno che non conosci. Sempre in cerca di un equilibrio dinamico tra ciò che resta e ciò che sparisce, come una sorta di corrente
d’aria. Nel corso del tempo ho accettato questa dimensione dell’imprendibile. Non è facile, è sconcertante, ma in fondo è questo che cerco di realizzare
e di frequentare, da sempre.