Betye Saar è nata a Los Angeles nel 1926. L’artista appartiene a quella generazione di autori afroamericani
moderni lasciati da parte per una questione di razza, come aveva fatto notare qualche tempo fa Nigel Freeman – specialista di Swann Auctions
Galleries (l’unica casa d’aste in America con un dipartimento dedicato a questo segmento) – in occasione di una presentazione di opere per l’incanto
African-American Fine Art (la prima vendita dello stesso genere risale al 2006).
Nel caso degli autori afroamericani, il mercato
dell’arte, come spesso succede, ha fatto bene la sua parte. Grazie alle vendite di Swann artisti già scomparsi o molto anziani hanno riscosso una
notorietà inattesa. Tra questi, “must” quali Alma Thomas (1891-1978), la scultrice Augusta Savage (1892-1962), Norman Lewis (1909-1979), Charles
White (1918-1979), Elizabeth Catlett (1915-2012), Jacob Lawrence (1917-2000).
Nei musei statunitensi l’arte afroamericana moderna è una delle
categorie tra le più “underrepresented”. Anche se nei caveau si trovano numerose opere, la loro presenza nelle sale è esigua e ancora più ridotto è
il numero di mostre che le vede protagoniste. Emblematico il fatto che Betye Saar abbia inaugurato solo all’età di novantatre anni la sua prima
personale al MoMA di New York.
L’artista ha fatto parte di una straordinaria generazione di autori afroamericani (oltre a quelli appena
menzionati) del calibro di Sam Gilliam (1933), Faith Ringgold (1930) e Romare Bearden (1911-1988).
La sua biografia ci dice che Betye era di
famiglia agiata. I suoi genitori si erano conosciuti alla California University di Los Angeles, la stessa università dove lei otterrà un diploma in
design.
Saar subito dopo la laurea inizia una carriera come insegnante di design, mentre quella di artista richiederà un tempo maggiore di
maturazione. In questo ambito, i suoi primissimi riferimenti culturali furono Joseph Cornell e Simon Rodia, entrambi virtuosi sperimentatori della
pratica dell’“assemblage” di “discarded object”, l’oggetto di scarto. L’esperienza della costruzione delle Watts Towers (Los Angeles) da parte di
Rodia, di cui Saar fu testimone, fu determinante nella formazione di quell’estetica dell’“assemblage” che ne caratterizzerà buona parte del lavoro.
La scelta della pratica del riuso come strumento, intesa come “critical appropriation”, appartiene culturalmente a più di un artista afroamericano,
sia della generazione di Saar che di quelle successive.
Faith Ringgold – il cui lavoro è stato ignorato per decenni, tanto dall’aver wavuto
solo all’età di ottantanove anni la prima personale europea alla Serpentine di Londra (6 giugno - 7 settembre 2019) – alla fine degli anni Sessanta
scelse di usare ritagli di stoffa per creare i “quilt”, le classiche trapuntine in cui rappresentava veri e propri paesaggi, espressione del mondo
che la circondava e che ogni giorno aveva di fronte ad Harlem.
I “quilt”, nella casistica del design, sono considerati Folk Art. Nel lavoro di
Ringgold sono l’espressione della creatività e del lavoro femminile collettivo, quello che le donne di colore svolgevano insieme, dando nuova vita a
ritagli di stoffa che qualcun altro avrebbe gettato.
Il “quilt” come oggetto è emblematico di un certo mondo afroamericano del passato, tanto
che un artista come Sam Gilliam, che della sua afroamericanità non ha mai fatto una bandiera, dopo aver sperimentato l’arte astratta nelle più
eccelse forme concettuali, l’ha adottato in alcuni lavori come medium.
La tecnica del ritaglio di carta, nella forma del collage, invece, fu
usata da Romare Bearden per creare opere in cui l’artista rappresentava la storia e la vita degli afroamericani. Gli stessi temi, sul modello di una
“imagery” simile, sono stati ripresi da Kerry James Marshall (1955) nelle sue enormi tele.
Saar realizzerà il suo primo vero e proprio gruppo
di opere a Los Angeles tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. La scelta personale, a tratti intima, dell’uso dell’“assemblage”
come tecnica, sposerà i temi forti legati alla protesta sociale in difesa dei diritti della gente di colore, temi condivisi con gli artisti che
facevano parte del Black Arts Movement. Ufficialmente periodizzabile tra il 1965 e il 1976, il movimento diede un forte impulso alla creazione di
una nuova estetica in termini di African-American Fine Arts.
Los Angeles in quegli anni fu uno degli epicentri del movimento per i diritti
civili degli afroamericani. Vi aderirono musicisti, attori e artisti quali Charles White, pioniere del realismo sociale, che dal 1956 si stabilì a
Los Angeles con la moglie, la scultrice Elizabeth Catlett, per insegnare all’Otis College of Art and Design; Noah Purifoy (1917- 2004) fondatore del
Watts Towers Arts Center, situato in prossimità delle Watts Towers di Simon Rodia; John Outterbridge (1933), John Thomas Riddle (1934-2002).
Nel sobborgo di Watts, a Los Angeles (dove Saar aveva vissuto), crearono una vera e propria “community”. Qui, attraverso la pratica artistica,
esplorarono le narrazioni proprie della cultura afroamericana e seppero darle una forma compiuta attraverso l’utilizzo di un “up and down” di
tecniche che andavano dalla pittura al disegno, alle diverse forme dell’“assemblage”, con la pretesa e l’obiettivo di ridefinirne l’interpretazione
storica.
Tutte le opere di Betye Saar riprodotte in questo articolo sono conservate al MoMA - Museum of Modern Art di New York.