Alberto Salvadori, direttore dell’Ica di Milano, illustra Vicino al cuore, la prima personale italiana di Simone Forti, da lui curata insieme a Chiara Nuzzi, in mostra fino al 2 febbraio negli spazi espositivi dell’istituto non profit per le arti contemporanee inaugurato un anno fa. Nata a Firenze nel 1935, ma cresciuta tra Los Angeles e San Francisco come esule di origini ebraiche, negli anni Sessanta Forti è a New York, dove studia con Merce Cunningham e diventa pioniera del connubio tra danza, coreografia, musica, arti visive, insieme a, tra gli altri, Yvonne Rainer, Trisha Brown, Steve Paxton, La Monte Young.
Com’è nata l’idea di una retrospettiva su Simone Forti?
È nata anni fa, quando incontrai il suo lavoro fuori dal circuito
dell’arte contemporanea e rimasi affascinato dalla forza che, con semplici azioni, riusciva a imprimere al suo corpo facendolo diventare un
formidabile strumento di trasmissione poetica, politica e narrativa. Ho poi studiato il suo percorso e seguito le sue sempre più rare apparizioni
rimanendo profondamente colpito anche dalla sua chiara volontà di essere, senza apparire. È discreta e potente in termini espressivi e questo la
rende una figura determinante nella storia della performance e dell’improvvisazione. Tuttora rimane estremamente sobria e distaccata dal grande
circo dell’arte contemporanea, che può essere molto aleatorio.
Vicino al cuore, prima personale nel nostro paese dedicata a Simone Forti. Ne abbiamo parlato con Alberto Salvadori curatore, con Chiara Nuzzi, del progetto espositivo
La mostra, che conta sessanta opere, è densa di pezzi forti! È un progetto dedicato sostanzialmente a una decade, gli anni Sessanta, che è stata fondamentale nel suo percorso. Simone ci ha data la possibilità, ed è stato un regalo, di esporre molte opere inedite di quel periodo: in particolare, disegni, che sono fondamentali per le sue performance, e acquerelli, alcuni dei quali dedicati a momenti salienti della sua vita.
Il tema di come esporre la danza e la performance in museo è sempre più attuale. Come ha coniugato la necessità di mostrare opere “concluse”, storiche, a quella di presentare il corpo in movimento?
Questo è un tema da tempo al centro di un percorso museografico attualizzato; soprattutto da quando la smaterializzazione dell’opera non costituisce più un problema critico-curatoriale. A maggior ragione per noi, che non siamo un museo ma un istituto per le arti contemporanee, la necessità di mostrare e di poter proporre dal vivo il lavoro di artisti come Simone Forti è un piacevole “obbligo”! La danza e la performance fanno parte di quella modalità comunicativa ed espressiva dei linguaggi vivi, della possibilità di usare il corpo per dire cose e attualizzare la narrativa del proprio tempo.
Il 16 gennaio è previsto un incontro, a cura di Riccardo Venturi, sulla relazione tra danza e arti performative. La mostra seguita da un simposio sarà una formula ricorrente della programmazione dell’Ica?
L’incontro fa parte del Public Program che abbiamo iniziato lo scorso novembre con la mostra dei Masbedo. Ha un titolo molto chiaro per i nostri propositi: The Mind is a Muscle, frase di Yvonne Rainer, guarda caso altra figura importantissima della danza e della performance contemporanea. Il tema della programmazione in corso è “il vivente” e Riccardo è l’anima degli incontri, dei simposi e delle edizioni della Scuola di filosofia che si terranno fino a maggio 2020. Ne stiamo progettando di futuri dedicati ad altri temi.