«La vita è fumo: ti dibatti, t’illudi, ti aggrappi a fantasmi che scivolano via dalle mani, e la morte è là», annota Félix Vallotton nel 1921, poco prima di compiere cinquantasei anni(1).
La morte – e non una morte qualsiasi, come vedremo – è un tema ricorrente nell’opera di questo artista che non fu solo pittore e critico d’arte. Ai suoi tempi Vallotton ottenne altrettanta se non maggiore popolarità con le illustrazioni per riviste e giornali come “La Revue blanche”, “Mercure de France ”, “L’Assiette au beurre”. Le sue incisioni dominate da fondi neri, alcune debitrici dei tagli fotografici alla Degas e in sintonia con i primi esperimenti del cinema muto, furono apprezzate da fini intenditori, che gli riconobbero il merito di aver fatto “rinascere” le tecniche xilografiche del Cinquecento(2). L’artista franco-svizzero fu anche autore di romanzi, come si vedrà, ma questa attività restò ignota ai contemporanei.
Da pochi anni studiato con attenzione, in tutti i suoi aspetti, e svelato al grande pubblico, Vallotton resta un artista difficilmente classificabile.
Per gli amici del gruppo nabi, che amavano i soprannomi, restò sempre «le nabi étranger», il nabi straniero. Nato a Losanna il 28 dicembre del 1865,
Vallotton si era trasferito a Parigi, sedicenne, per studiare pittura. Nel 1900 ottenne la nazionalità francese, e a Parigi morì, un giorno dopo aver
compiuto sessant’anni, il 29 dicembre del 1925. Non rinnegò mai le origini svizzere: doppia nazionalità, la sua, e anche, per molti versi, doppia
personalità. Di tendenza anarchica, acuto osservatore della vita moderna della Parigi “fin de siècle”, cinico narratore di una borghesia ipocrita e
decadente, mantenne le sue idee anche dopo il matrimonio con la figlia del rinomato gallerista Alexandre Bernheim-Jeune. Dentro di sé celava qualcosa di
non apertamente espresso. Tentiamo d’indagare.