Sono passati alla storia con il nome di “divisionisti” per il loro procedere in pittura. Catturavano la luce con un metodo scientifico, accostando punti, filamenti, piccole macchie di colore sulla tela, studiando toni complementari, giustapponendoli o ravvicinandoli per ottenere vibrazioni e riflessi percepibili alla giusta distanza. Era l’occhio dello spettatore a fondere i tocchi, individuando le zone luminose che creavano forme, masse, volumi, spazi.
I primi erano stati i francesi con il “néo-impressionnisme” di Georges Seurat, teorizzato da Félix Fénéon, che aveva coniato il giusto termine contro il
fuorviante “pointillisme”: «Credere che i neoimpressionisti siano dei pittori che coprono le tele di piccoli punti multicolori è un errore molto
diffuso», sosteneva Paul Signac nel D’Eugène Delacroix au néo-impressionnisme- Manifeste du Néo-Impressionnisme (Parigi 1899).
Gli italiani vi giunsero poco dopo con l’appropriato termine “divisionismo”, teorizzato dal critico e pittore milanese Vittore Grubicy de Dragon, che
sin dal 1887 aveva diffuso alcuni trattati di ottica transalpini.