Questo monocromo grigio di Luca Vitone (Genova, 1964) non nasce come i dipinti astratti minimalisti, a cui
sembrerebbe inizialmente ricollegarsi, da una riduzione o sottrazione, ma dal suo esatto contrario. È di fatto un accumulo di un particolare tipo di
polvere: la cenere prodotta da un termovalorizzatore per la combustione dei rifiuti cittadini, che Vitone ha usato come pigmento, fissandola su lastra
di alluminio e proteggendola con un box di plexiglass; forse anche per conservare intatta la memoria del luogo a cui si riferisce, per evitare che altra
polvere si sedimentasse sulla superficie generando un’intrusione.
Simile a una capsula del tempo, l’opera preserva “le ceneri di Milano” ed è dal
punto di vista contenutistico, così come formale, una riflessione sulle possibilità della pittura contemporanea. Vitone sceglie la polvere per
presentare, invece di rappresentare, un paesaggio cittadino (la polvere è tra l’altro anche un elemento dannoso per la pittura, che ne mette in
discussione la salvaguardia). Mostra Milano nella sua concretezza più tangibile: ciò che resta della vita quotidiana, lo scarto del vissuto, le «cose
ultime»(1) diventate cenere. Si tratta di una relazione con la storia (materialista) che ha alle spalle una lunga tradizione,
cominciata a inizio Novecento con Walter Benjamin, e che ha portato alla definizione di quella che oggi chiamiamo “cultura dello scarto”.
Come
archivio di un passato che non c’è più, ma di cui è rimasta traccia, Le ceneri di Milano è dunque anche un “memento mori”. La cenere, al pari
della polvere, è un segno minimo, eppure ben visibile, dello scorrere «inesorabile e accumulatorio»(2) del tempo ed è da sempre
associata al ciclo della vita. «Ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai», recita la nota locuzione ripresa dalla Genesi (3, 19)
e adottata dal rito cattolico proprio nel Giorno delle ceneri.
Con questo valore simbolico che allude all’origine e alla fine della vita, quindi
anche alla consunzione del corpo, la polvere è stata rappresentata nella storia della pittura per secoli, finché Marcel Duchamp non ne ha fatto un
“ready-made”, elevandola a materia dell’arte in quella che rimane una delle sue opere più enigmatiche. Nel Grande vetro (1915-1923) la usa sia
come “colore” per dipingere (si veda la parte bassa dell’opera, dove compaiono i cosiddetti “setacci”), sia come sedimento pulviscolare casuale, che
diventa il soggetto di una celebre fotografia dell’opera stessa (Allevamento di polvere, 1920), firmata a quattro mani con Man Ray(3).
Per Vitone la polvere è prima di tutto l’elemento che racconta l’essenza di un luogo e ha pertanto un valore marcatamente “site-specific”. Così
come Le ceneri di Milano, anche altri suoi monocromi fatti di polvere presentano spazi reali dal valore simbolico: la Stecca degli artigiani, ex
fabbrica del Comune di Milano (Finestre, 2004, serie di sette acquerelli su carta); il Riso - Museo regionale d’arte moderna e contemporanea di Palermo
(Piano terra, Piano nobile e Secondo piano, 2005, serie di tre acquerelli su carta)(4); la città di Roma (Io Roma, 2005, serie di tele di lino bianco esposte all’aperto alle polveri sottili della capitale); il Centro studi e archivio
della comunicazione dell’Università di Parma (Csac), dove Vitone ha progettato la sua ultima mostra. Intitolata Il Canone, riunisce ventiquattro
opere da lui scelte tra quelle della collezione dello Csac(5), più come installazione a se stante nella chiesa del monastero cistercense, il suo nuovo monocromo composto con le polveri dell’archivio-museo, a cui
è stato donato(6). Vitone parla poeticamente di questo archivio nell’archivio come di «una sorta di retino, di quelli usati dai bambini seduti sugli scogli, utile alla
cattura di granchi e pesciolini, ma spesso portante vuota acqua salata. Il mare, come la polvere, sempre uguale e sempre diverso, serbatoio di vita e
testimone del tempo»(7).
Dentro l'opera
POLVERE E LUOGHI:
L’ARTE COME SEDIMENTO
di Cristina Baldacci