L'immagine che generalmente ci figuriamo della pittura europea del secondo Ottocento è quella di un momento di arrembante sperimentazione tecnica e stilistica che siamo soliti identificare con quelle poetiche del vero diffusesi in tutto il continente a partire da circa metà del secolo in più o meno aperto contrasto con le tradizioni della pittura d’accademia. La radicale dicotomia tra i sogni arcadici e le romanze medievaleggianti da un lato, e una cruda e talora polemica rappresentazione della contemporaneità dall’altro sogliono oggi oscurare la memoria e lo studio di alcune tendenze artistiche minori, che pure al tempo godettero di sensibile fortuna e apprezzamento. Tra le meno note al grande pubblico ma tra le più interessanti per comprendere il pensiero e la società europea del secondo Ottocento vi è il neosettecentismo, una vera e propria moda in voga nel ventennio 1860-1880 che di fatto segnò un breve revival neorococò nell’arte europea di quegli anni, con particolare pervasività sul panorama italiano.
Nonostante la sua apparente “fuga nel passato” - un passato peraltro abbastanza recente - il neosettecentismo risulta più calato nella temperie contemporanea di quanto non appaia. La nuova società costituitasi dopo la metà del XIX secolo con l’inaugurazione delle Esposizioni universali e la seconda rivoluzione industriale si era fatta improvvisamente più globale e proiettata verso il futuro: un futuro rappresentato da una modernità di fabbriche e boutique, ferrovie e automezzi, di serialità, velocità, di nuovi materiali, di strutture socioeconomiche che contrapponevano i primi diritti sindacali a un proto-consumismo. In questa realtà, nella quale ai processi storici si cominciava a imprimere un’inedita accelerazione, la classe borghese si era conquistata centralità politica, economica e benessere materiale e non aveva tempo né voglia di fermarsi a meditare sul fenomeno: era semplicemente inebriata dal successo, e in cerca com’era di una nuova rappresentazione di sé finì, in un primo tempo, con l’identificare la propria spensieratezza con il brillante, gioioso e spregiudicato universo rococò così come lo avevano tramandato i quadri di Watteau, Boucher e Fragonard, ma anche di William Hogarth; in altre parole, la buona borghesia di secondo Ottocento cominciò presto a fuggire i castigati stereotipi del Biedermeier inseguendo luccicanti sogni Luigi XV.
Nonostante la sua apparente
“fuga nel passato”, il neosettecentismo
risulta più calato nella temperie
contemporanea di quanto non appaia
“fuga nel passato”, il neosettecentismo
risulta più calato nella temperie
contemporanea di quanto non appaia
D’altronde era proprio la Francia la principale culla e fucina di questa evoluzione e le bastò guardarsi indietro nella storia per scorgere, a poca distanza, il modello ricercato, che non tardò a riformulare e, grazie alla propria preminenza culturale, a esportare nei paesi confinanti, soprattutto attraverso il successo di pittori come Ernest Meissonier: un artista che dopo la convinta militanza realista della fine degli anni Quaranta e del decennio successivo, tra gli anni Sessanta e Settanta si rivolse alla pittura di storia sette-ottocentesca e alle scenette popolaresche in costume.
A dire il vero, in pittura questo neosettecentismo si dimostrò tale più nello spirito dei soggetti che nello stile pittorico: non si assistette infatti a un recupero di quella pittura di tocco e di quelle tavolozze pastello che ne avevano caratterizzato la migliore produzione fino al 1760. Erano piuttosto le ambientazioni, fatte di scenette galanti o spiritose e cromie accese e brillanti, a restituire questa nuova declinazione dell’universo rocaille, talora perfino prescindendo dai costumi dell’epoca.
La tecnica esecutiva di queste telette era d’altronde assolutamente libera e personale (in linea con gli allentamenti delle briglie accademiche), senza predeterminazioni estetiche, e non di rado guardava, specialmente in Spagna e in Italia, alla pennellata sfrangiata, rapida ed eccitata del fortunismo (gli imitatori di Marià Fortuny i Marsal), di capitale influenza su di una parte della pittura europea del secondo Ottocento ma aspramente criticato da alfieri del naturalismo internazionale come Diego Martelli, che lo bollava quale «arte da cocottes».


