La ricorrenza del cinquecentenario della morte di Raffaello ha suggerito di progettare una mostra (Raffaello e la Domus aurea. L’ invenzione delle grottesche) destinata a raccontare la storia della riscoperta della pittura antica sepolta nelle “grotte” dell’originaria Domus aurea: una storia secolare, che si apre alla fine degli anni Settanta del Quattrocento e che ha visto nell’Urbinate uno dei suoi grandi protagonisti. Si tratta di una mostra che avrebbe dovuto aprirsi il 6 aprile all’interno di alcune sale della reggia di Nerone: la Sala ottagona, con i cinque ambienti radiali che da essa si dipartono, e le due sale (119 e 129) dove ancora, sulle volte, si possono ammirare le originarie decorazioni ad affresco e a stucco realizzate dai pittori romani, verosimilmente sotto la guida di quel grande ed eccentrico maestro di nome Fabullo di cui parla Plinio il Vecchio. Ovviamente l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ha imposto di rimandare la data di inaugurazione: ma, nelle speranze di tutti, si tratta solo di un rinvio temporaneo, con l’augurio di poter riprendere presto, auspicabilmente prima della scadenza dell’anno raffaellesco, le fila di questo progetto espositivo.
Si tratta di una storia che comincia poco prima del 1480, quando alcuni pittori (Pintoricchio per primo, e poi Filippino Lippi, Signorelli, Domenico Ghirlandaio, Perugino, Aspertini, Macrino d’Alba, Gaudenzio Ferrari, Sodoma, Morto da Feltre e tanti altri) si calano nelle cavità del colle Oppio per recarsi, a lume di torce, ad ammirare le decorazioni pittoriche delle antiche abitazioni romane: pensavano di trovarsi di fronte agli affreschi delle Terme di Tito e invece stavano scoprendo, senza ancora saperlo, le rovine dimenticate dell’immenso palazzo imperiale che Nerone, dopo il disastroso incendio del 64 d.C., aveva voluto far costruire nel cuore di Roma.
