ASTE E MERCATO

GIUGNO 2020

La vendita di quel Rembrandt fece grande clamore, proprio quel ciò che non voleva l’acquirente: arrivò a dire che fu quello uno dei momenti peggiori della sua vita, nonostante fosse così divenuto celebre e avesse messo le mani su un quadro che tanto desiderava. La tela, in cui Rembrandt dipinse il proprio figlio Tito, nei primi anni della sua breve e sfortunata vita, è di un valore che va al di là delle discussioni che l’hanno pure accompagnata.
Si criticava il fatto che l’opera apparisse non finita, ma è proprio questo che ne garantisce il carattere di estrema modernità e che permette di ammirare il genio del pittore olandese, che con poche pennellate era in grado di creare figure dal forte impatto emotivo. Il quadro era finito in una casa di campagna nei pressi dell’Aja, che faceva anche da locanda. Per sua fortuna, il restauratore inglese George Baker perse la nave per tornare a casa in uno dei primi viaggi in Europa dopo il blocco continentale imposto da Napoleone, alloggiò lì e adocchiò il quadro. Lo pagò 1 scellino, pernottamento incluso, una miseria anche in quel 1815. A casa fece le indagini per dimostrare l’autenticità del Rembrandt, e poi, nel 1830, trovò l’acquirente giusto: il conte George Spencer, avo di Diana, futura moglie del principe Carlo d’Inghilterra. Il quadro rimase per un secolo nella magione di famiglia, ad Althorp nel Northamptonshire, passando di padre in figlio, fino a Charles Spencer. Era il 1915, e lui decise di venderlo per una cifra di tutto rispetto - 35mila sterline del tempo - a sir Herbert Frederick Cook (1868-1939), un baronetto che aveva ereditato una fortuna fatta nell’industria tessile, ma si era dedicato soprattutto alla sua collezione. Aveva una predilezione per Giorgione, e per questo gli attribuì quel che non era suo in un catalogo ragionato che pubblicò. Il Rembrandt rimase dai Cook, in famiglia, fino al 19 marzo 1965, quando lady Bridget Brenda Cook decise di venderlo da Christie’s. Lì successe l’incredibile. Si presentò agguerrito Norton Simon, un americano che controllava un impero nel settore alimentare e che intendeva farsi una collezione di tutto rispetto. Nel 1961 aveva provato ad aggiudicarsi un altro Rembrandt (Aristotele contempla il busto di Omero) ma quando il gioco si era fatto duro, il suo inviato si era ritirato e quell’opera era finita al Metropolitan di New York. Stavolta Simon voleva vincere e decise di giocare in prima persona. Ma odiava la pubblicità, per cui stipulò un criptico accordo scritto con il banditore.
Si sarebbe presentato in sala, ma per evitare di finire sotto i riflettori, avrebbe così agito: se stava seduto significava che stava rilanciando, se si alzava stava rinunciando, se si risiedeva e alzava il dito era di nuovo in gioco. Simon era però talmente eccitato che quando l’asta sul Rembrandt iniziò, si mise a rilanciare verbalmente, poi si calmò e si sedette, come da accordi.
Il banditore, confuso, pensò che non fosse più interessato, per cui dopo una battaglia fra altri due compratori, assegnò il quadro alla Marlborough Gallery per 700mila ghinee.
Simon, inferocito, scattò in piedi, corse dal banditore e con sguardo di ghiaccio fece presente che non era stato rispettato il suo accordo scritto e lo mostrò a tutti.
Apriti cielo. Giornalisti in massa intorno a lui, flash da illuminarlo a giorno, e asta riaperta. Norton Simon, senza ormai nascondersi, rilanciò fino ad aggiudicarsi il quadro alla cifra di 760mila ghinee (qualcosa come 1,3 miliardi delle nostre vecchie lire) e seconda aggiudicazione più alta a quei tempi. Dovette ancora combattere per portare il Rembrandt a Pasadena in California, dove ora fa grande mostra di sé nel museo personale dei Simon e da cui raramente esce. Del resto, ormai tutti sanno dove trovarlo, nonostante le manie di riservatezza del miliardario americano.


Rembrandt van Rijn, Ritratto di Tito (1653), Pasadena, Norton Simon Museum.