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OGNI SPAZIOHA UNA SUA STORIA

di Daniele Liberanome

Nonostante l’indiscutibile talento, Rachel Whiteread è debole sul mercato.
Le sue opere, simbolo di memoria e dell’essenza più intima dei nostri ambienti, fanno poco rumore

Creatività e originalità non mancano, vicinanza ai centri pulsanti della scena artistica mondiale neppure, fama internazionale ne ha avuta fin dal debutto - eppure il suo mercato non decolla, anzi negli ultimi anni è in flessione. Rachel Whiteread (nata nel 1963) pare quindi un mistero, lei che fa della visione soggettiva degli spazi e delle cose un elemento focale e inconfondibile del suo lavoro.
Quel che conta in una casa - ci dice - non sono i muri, ma quel che ne facciamo, l’atmosfera che vi si respira, la vita che vi infondono le persone che la abitano, il modo in cui la valorizzano a seconda dei loro atteggiamenti. Insomma in una casa, come rispetto a ogni altro oggetto che utilizziamo, non bisogna focalizzarsi sull’involucro, ma su quello che accade al suo interno, al riparo dagli sguardi; la tendenza diffusa è invece di soffermarsi proprio sulla parte esteriore da preservare, eventualmente, oppure da distruggere buttando così al macero anche il suo contenuto, la parte essenziale.
Whiteread ha tradotto questa idea, peraltro molto efficace e molto ben diretta contro il mondo delle apparenze, con una poetica artistica di notevole impatto: crea dei calchi “al negativo” dei muri e degli oggetti, calchi del loro spazio interno, per mantenere in vita ciò che li ha “animati” e invitare a soffermarvisi. È appunto così che creò le sue prime opere, dopo aver completato gli studi nella Londra pulsante di fine anni Ottanta.


Untitled (Twenty-five Spaces) (1994).