Cesare Pietroiusti è artista, performer e docente. Espone in Italia e all’estero in spazi deputati all’arte e non. Distribuisce gratuitamente migliaia di disegni firmati, ingerisce banconote all’asta per restituirle al proprietario dopo l’evacuazione, scambia opere con le idee dei visitatori. Ha insegnato allo IUAV a Venezia e alla Lesley University di Boston. Dal luglio 2018 è presidente del consiglio d’amministrazione di Palaexpo, azienda che gestisce Palazzo delle esposizioni, Macro e Mattatoio a Roma.
Cesare, vorrei approfondire il tema della performance, la sua presenza nelle istituzioni e nell’educazione. Partiamo da te.
Il
mio lavoro non nasce da una disciplina o una ricerca tecnica ma da un’elaborazione di esperienze qualunque, collaterali a quelle quotidiane. Tutto
ciò che accade può essere oggetto del lavoro artistico, purché contribuisca a formulare pensieri inattesi. Gli elementi sono gli stessi della vita
ordinaria - il “quodlibet” di Agamben - declinati attraverso il “pensiero non funzionale”, che ricombina quegli elementi in modo non convenzionale,
li trasforma in un gioco creato per l’occasione. L’agire e la relazione, il fare-con-altri, non mirano a produrre un’opera finita, ma un
concatenamento aperto, al gerundio, un “facendo” piuttosto che un “fatto”. Credo sia assai limitativo ridurre l’arte a un prodotto. L’indefinizione,
che è proprio oggetto della ricerca artistica, è parallela all’apertura delle relazioni. Non siamo unità individuali chiuse, ma nodi all’interno di
una rete che contribuiamo a generare.
L’autunno scorso al MAMbo di Bologna hai presentato Un certo numero di cose / A Certain Number of Things, la tua prima retrospettiva. Cosa significa autonarrarsi in un museo?
Ho preso alla lettera l’idea di retrospettiva e ho scelto di esporre sia oggetti che hanno a che fare con la ricerca artistica sia oggetti
precedenti alla mia autodefinizione come artista. Uno per ogni anno di vita, dalla nascita a oggi. La narrazione che accompagna gli oggetti consente
punti di sovrapposizione fra la memoria infantile ed eventi attuali, crea collegamenti fra tempi anche molto diversi, come le “immagini dialettiche”
benjaminiane. A nove anni con un amichetto cercai di bucare il muro della mia stanza per arrivare a casa di mia nonna. Non ci riuscii, ma il tema di
andare al di là delle pareti dello spazio espositivo è tornato molte volte nella mia vita da artista. Questi ponti temporali sono ciò che
caratterizza l’opera, propaggini che la riportano indietro nel tempo e valenze aperte in attesa di future attribuzioni di senso.