nodo tematico dei gemelli torinesi Gianluca e Massimiliano De Serio (1978) è la ricerca identitaria
contemporanea. Negli ultimi quindici anni, hanno indagato la condizione umana da una prospettiva etnico-culturale e socio-politica scegliendo come
protagonisti di documentari e installazioni video figure esemplari di una collettività ai margini. Il loro è uno sguardo lucido, compassionevole e
partecipe, ma non ideologico, su una realtà che riguarda tanto la periferia geografica e urbana, quanto quella dell’anima. L’elemento biografico ha
avuto un ruolo fondamentale in questo senso. I De Serio sono nati e cresciuti - e tuttora vivono - nei sobborghi a nord di Torino, a un passo dalle
baraccopoli lungo il fiume Stura: sono perciò da sempre a contatto con il lato più precario, mutevole e alienato dell’esistenza. E il loro essere
fratelli gemelli li ha sottoposti a un quotidiano, seppur involontario, confronto con se stessi.
Forse è anche per questo che, dopo aver
osservato e filmato per tanto tempo il mondo esterno, di recente hanno sentito il bisogno di puntare l’obiettivo sulla propria individualità, che,
essendo doppia, è alquanto problematica. Invece di guardarsi singolarmente allo specchio, si sono riflessi l’uno nell’altro: una prima volta, in un
dialogo verbale, che loro stessi hanno definito come una «confessione reciproca basata sul ricordo di emozioni comuni e di sogni»; una seconda, in
un confronto unicamente visivo che ha generato un duplice autoritratto. In entrambi i casi hanno adottato una tecnica del tutto anticonvenzionale.
Per l’installazione Un ritorno i De Serio
sono ricorsi all’ipnosi,
inoltrandosi in un viaggio introspettivo
Per l’installazione a schermo singolo Un ritorno (2013) - nata come prima commissione dell’iniziativa Museo chiama artista, promossa dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e da AMACI (Associazione dei Musei d’arte contemporanea italiani) -, i De Serio sono ricorsi all’ipnosi, inoltrandosi in un viaggio introspettivo che, dopo un iniziale scambio cosciente, li ha portati indietro nel tempo fino allo stato prenatale e al grembo materno. Qui, «con gli occhi chiusi» e «carichi di lacrime» (probabilmente, un ricordo fisico del liquido amniotico), Massimiliano si sentiva «leggerissimo e mi sembrava di levitare in assenza di gravità, intorno a mio fratello», mentre Gianluca aveva l’impressione di stare «sul fondo, sopra una morbida superficie». Questo raffronto con il proprio io e con l’altro - che, in questo caso, coincide con il diverso da sé, ma anche con un alter ego in carne e ossa -, è stato filmato dalla telecamera e supervisionato da un gruppo di esperti che, per la prima volta, si sono trovati a ipnotizzare una coppia di gemelli, oltretutto simultaneamente. Per i De Serio si è trattato di un «ritorno alle origini» sia interiore, sia artistico. Hanno infatti usato soltanto i mezzi primari del loro lavoro: il corpo, lo spazio e la macchina da presa. Dopo avere guardato sempre avanti, avevano bisogno di ritornare sui loro passi per superare una momentanea «crisi creativa e identitaria».
Anche in Esecuzione (2013), che è sempre un’installazione filmica, ma a doppio schermo, i gemelli si studiano a vicenda, questa volta fotografandosi con una polaroid. Il montaggio sequenziale delle immagini non restituisce però un ritratto fedele dei due artisti; o meglio, a essere visibile è soltanto il loro aspetto esteriore, non la loro vera natura. L’io sfugge a questo tentativo di cattura rimanendo inevitabilmente celato dietro alla maschera dell’apparenza. Si svela così anche il titolo dell’opera, che è, in senso letterale, una doppia “esecuzione”, come performance o azione fotografica e maschera funebre.
Prima di diventare noti come videoartisti, i De Serio hanno avuto una lunga carriera come registi. Per questo, ancora oggi, molti dei loro lavori, oltre che in musei e gallerie, vengono presentati a festival ed eventi cinematografici riscuotendo successo internazionale e importanti premi. Esempio emblematico è il lungometraggio Sette opere di misericordia (2011), che si è aggiudicato ben più di un solo riconoscimento come film perfetto nella forma - tutto giocato su primi piani e pochissimi dialoghi - e commovente nei contenuti. La storia è una parabola umana dolorosa, ma dove c’è ancora spazio per la speranza, i cui protagonisti sono una giovane clandestina rumena (Luminița) e un vecchio malato italiano (Antonio). I due impersonano realtà differenti per storia e provenienza - lui è simbolo dell’immigrazione interna al paese, lei della diaspora di un popolo -, ma sono accomunati da una stessa misera condizione che li spinge a lottare per la sopravvivenza. Nonostante le quotidiane bassezze e i soprusi reciproci, alla fine è la pietà ad avere la meglio e a riscattare entrambi i personaggi.
Alle spalle di questo affresco dell’animo umano sta tutta una serie di cortometraggi e documentari che, con modalità e sfondi sempre diversi, gettano luce sull’identità individuale e di gruppo. Da Mio fratello Yang (2004), il racconto di una diciassettenne cinese che, una volta arrivata illegalmente in Italia, si appropria del nome e della famiglia di una connazionale scomparsa, a Bakroman (2010), un reportage che i gemelli hanno realizzato per le strade della capitale del Burkina Faso per dare voce, e soprattutto immagine, alle migliaia di orfani vittime della violenza e dell’indifferenza collettiva.
In tutti i loro lavori, i De Serio uniscono impegno sociale e cura estetica, senza dimenticarsi del soffio poetico, che è la chiave per riuscire a mostrare anche gli aspetti più crudi della vita e rendere un’opera universalmente accessibile.