Studi e riscoperte. 4 
Rabisch: il grottesco nel Cinquecento

un gioco
di dotti

Nella Milano borromaica del Cinquecento i facchini, immigrati dalle valli dell’Alta Lombardia, ispirano una nutrita schiera di artisti conosciuti in tutta Europa che, in modo forse un po’ snob e parodistico, danno vita addirittura a un’accademia. Giovan Paolo Lomazzo, uno dei fondatori, pubblica una raccolta di poesie, Rabisch, “arabeschi”, in dialetto, nome con cui spesso è designata la stessa scuola.

Jean Blanchaert

milano, metà del Cinquecento, i facchini erano una categoria di lavoratori molto importante e in evidenza. Bisognava trasportare ogni tipo di merce - dal meraviglioso marmo di Candoglia, bianco e rosa, della val d’Ossola, alle sabbie del Ticino, al carbone, al legname - destinata alla Veneranda fabbrica del duomo. Queste e altre mercanzie di ogni sorta arrivavano sulle chiatte alla darsena dei Navigli. I facchini erano dappertutto, riconoscibili per il loro abbigliamento come oggi, cinquecento anni dopo, lo sono i taxi bianchi con l’insegna luminosa sul tetto. Erano pittoreschi; la loro parlata era un dialetto milanese pieno di espressioni e intonazioni bergamasche, valtellinesi e ticinesi, un idioma distante dalla lingua di Dante quanto il Polo Nord dal Polo Sud. Eppure, come i due poli hanno il ghiaccio e il freddo in comune, anche questo “volgare”, delle Alpi e delle Prealpi lombarde dai suoni barbari - mai rozzi - è figlio del latino.

Oggi, dopo molti secoli, dialetti come quello dei facchini, piccoli fiumi emissari del grande lago della lingua, non sono ancora morti, ma tenuti in vita, soprattutto nelle campagne e nei paesi, da partigiani inconsapevoli di una lotta di resistenza contro il potere uniformante del gergo televisivo, ben consapevoli invece della spiritosa, ironica e sagace musicalità della loro parlata che, se fosse in lingua italiana, avrebbe meno sale.
Tornando alla Milano del Cinquecento, dobbiamo immaginarci che l’invocazione «facchino!» fosse ricorrente, più volte al giorno. Questi robusti portatori di bagagli, di merci, di pesi, così richiesti in ogni parte della città, erano immigrati dalle valli dell’Alta Lombardia, in particolare da quella di Blenio, a nord-est di Bellinzona, oggi Canton Ticino. Con loro giungevano altri manovali e uomini di fatica: spaccalegna, castagnai, spazzacamini, spinti verso la città dalla miseria delle loro valli.
§Ai facchini si ispira un gruppo eterogeneo di artisti, pittori, scultori, intagliatori, ricamatori, teatranti, musici e letterati che a Milano, nel 1560, fonda un’accademia con regole, rituali e segreti luoghi di riunione e adotta, quasi fosse un “trobar clus”, il loro dialetto e quasi fosse una divisa, il loro abito da lavoro. Si autonominano facchini di val d’Bregn (valle di Blenio), la valle che tutti conoscono perché attraversata dai mercanti, dagli artisti e dai viaggiatori che si recano o ritornano dalle città dell’Europa centrale attraverso il passo del Lucomagno. Tra i fondatori dell’accademia vi è quello che diventerà, otto anni più tardi, il suo “nabad” (abate), nome riservato ai capi delle corporazioni. È Giovan Paolo Lomazzo. Come tutti, ha un soprannome, “compà Zavargna” che significa compare burlone. Per accogliere il nuovo abate è prevista una cerimonia d’iniziazione, il conferimento da parte del gran cancelliere con “magn dor cur”, la mano del cuore (la sinistra), del tirso (la verga) di Bacco, usata nei riti dionisiaci.
Grazie a Bacco, protettore dell’accademia, perfino l’ebbrezza del vino, metafora dell’ebbrezza poetica, ha il potere di rendere lo sguardo “begn ciaer e net” (ben chiaro e limpido). Il significato di questa cerimonia deve restare segreto, «la servarem fra nugn di Bregn, in di còs secrett» (lo conserveremo fra noi di Blenio, fra le cose segrete). Il tirso potrebbe essere la lancia con cui Bacco distrusse Licurgo, Penteo e “tuch i tiragn dor mond” (tutti i tiranni del mondo).
Già da tempo nell’arte è in atto una crisi di rinnovamento iniziata con Leonardo, con le sue indagini fisiognomiche e le sue esplorazioni degli stati dell’animo che alterano i lineamenti, mostrando anche il lavoro del tempo che scolpisce, modella e deforma i corpi e i volti fino a renderli caricature. Gli accademici facchini vogliono salvare l’eredità più problematica e innovativa della ricerca di Leonardo, quella dei disegni, quella dei taccuini e insieme l’idea di un’arte che sia invenzione, non racconto, e che rifletta la “magia naturale” insita nella realtà. È quella magia di cui parla Cornelius Agrippa nel De occulta philosophia. Il volume dell’alchimista tedesco, principe dei maghi neri e degli stregoni, edito a Colonia nel 1533, è per Lomazzo un punto di riferimento. Nel 1589, a Milano, Lomazzo pubblicherà Rabisch, che in dialetto facchinesco significa “arabeschi”, una raccolta di poesie degli accademici della valle di Blenio. Da questo momento col termine Rabisch spesso si designerà anche tutta l’accademia.


Testa grottesca (XVI secolo).

Giovan Paolo Lomazzo: in alto, la copertina di Rabisch (1589), Lugano, Biblioteca comunale;