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Non ci sono più le mezze stagioni», dice un adagio moderno che tradisce tutto il profondo senso di colpa
che attraversa la nostra civiltà industriale e tecnologica, conscia di andare ben al di là dell’equilibrato sfruttamento delle risorse naturali. Le
politiche energetiche, miopi e preoccupate solo di procurare proftti certi e consistenti, hanno rischiato e rischiano di dissestare quel fragile
equilibrio che permette il perdurare della vita sulla terra. Eppure, miracolosamente, ogni anno, la Natura dimostra di essere più saggia e generosa
dell’uomo e, dopo un inverno piovoso e disastrato (che di nuovo, soprattutto nel nostro paese, ci pone dinanzi a responsabilità e inadempienze), il
clima si addolcisce e si avvia verso un regime temperato che sfocia in quella meravigliosa stagione che è la primavera. Un tempo, questo, che si
caratterizza per il rinnovamento del creato e che è così importante nel percorso mentale umano (da qui scaturisce l’idea di rinascita, ma pure
quella di tempo ciclico) da essere entrato nell’itinerario simbolico non solo del mondo occidentale, come metafora stessa dell’esistenza umana, ma
anche di quello orientale e delle culture precolombiane che lo affdavano a specifche divinità protettrici(1). Valga tutto questo come premessa per
svelare il signifcato di un’immagine singolare. Bisogna sapere, infatti, che quella che oggi potremmo chiamare storia delle religioni ebbe un
importante precedente nel testo di Vincenzo Cartari, erudito e latinista di Reggio Emilia che, oltre all’edizione dei Fasti di Ovidio, dedicati nel
1551 al futuro duca Alfonso II d’Este, pubblicò un trattato che studiava le evidenze archeologiche relative alla rappresentazione delle antiche
divinità greche intitolato Imagini delli dei de gl’antichi(2). Il libro di Cartari ebbe grande fortuna; fu pubblicato di verse volte, ma
dalla seconda edizione del 1571, cui si riferisce il titolo con cui l’abbiamo citato (più corto di quello adottato nella prima), l’opera si presenta
già con quell’apparato illustrativo che ne decretò il successo(3). Le varie ristampe scavalcaro no il secolo ed ebbero revisioni e aggiornamenti sia
nel testo, sia nelle illustrazioni che erano realizzate, ovviamente, con incisioni xilografche. A queste nuove versioni appartiene anche quella
curata da Lorenzo Pignoria che, nel 1615, con l’occasione dell’ennesima ristampa del libro, pensò bene di arricchirlo con l’aggiunta di un suo testo
che, senza troppa fantasia, intitolò Agionta. Erudito di Padova, s’interessò alle origini della sua città scrivendo un corposo volume che vide la
luce nel 1625, cui fece da compendio un’altra impresa di rilievo come il De operis servorum liber nel quale approfondiva gli interessi
antiquari già dimostrati nell’Agionta(4). Nel procedere al lavoro di revisione del testo di Cartari, Pignoria si lamentava della
superfcialità e delle imprecisioni dell’autore, cui rimproverava anche il fatto di aver escluso le divinità appartenenti alle culture per così dire,
extramediterranee. Per l’epoca, si tratta di una posizione estremamente moderna, soprattutto se si pensa che, allora, nonostante le scoperte
geografche, il punto di riferimento culturale, per le persone colte, era costituito dal cristianesimo e dalla civiltà greco- romana, con l’aggiunta
di quella egizia. Pignoria, invece, spaziava dall’Asia all’Africa, fno alle lontane Americhe riferendo di credenze religiose che, nel libro, si
facevano più concrete grazie a quelle testimonianze archeologiche che l’erudito riusciva a descrivere fra quelle presenti nelle collezioni a lui
note. Naturalmente, non sempre tutto era chiaro per chi leggeva (ma forse anche per chi scriveva) come accade nel caso di un «Cercopiteco d’Egitto»
così defnito perché «ha più fgura di bestia che di uomo», illustrato dall’incisore Filippo Ferroverde(5). L’erudito precisa che si trattava di
un’opera (di certo una statua) esposta nella galleria del «serenis[simo] di Baviera», corredata di un cartiglio nel quale si poteva leggere «Idolo
adorato nella Città del Messico», donato all’arcivescovo di Toledo, il cardinale Francesco Ximenez(6). Finora, gli studiosi non hanno identifcato
questa singolare fgura, anche se l’hanno ricondotta, insieme a tutta la collezione bavarese di cui parla Pignoria, alla cultura messicana, i cui
oggetti provenivano dalla Florida, come ha dimostrato Christian Feest(7). Tuttavia, come ho avuto modo di scrivere altrove, il puntuale confronto
con la statua di Xipe Totec conservata nel Museo Regional de Puebla, permette di dare un nome preciso all’immagine pubblicata da Pignoria(8). Si
tratta, infatti, della divinità della primavera di origine mixteca, un’antica cultura mesoamericana, poi entrata nel pantheon azteco nel XV secolo.
A dispetto del ruolo in apparenza poetico, il dio, il cui nome vuol dire “Nostro Signore lo scorticato”, presiedeva una cerimonia cruenta che
simboleggiava la rinascita. Quella sorta di corazza a scaglie che caratterizza sia la statua di Puebla in terracotta, sia l’incisione
dell’Agionta, in realtà, è la pelle delle vittime sacrifcali che i vincitori di un duello rituale indossavano a rovescio dopo averla dipinta
di giallo. Era questo il loro modo di simboleggiare il rinnovarsi della Natura che, per via della violenza che contiene in sé, purtroppo, sembra
interpretare da vicino le aberrazioni del mondo di oggi.
Il senso nascosto
dalle ceneri
la rinascita
di Marco Bussagli