Il 15 marzo 2020, quando è morto Vittorio Gregotti, c’era un silenzio irreale a Milano, interrotto soltanto dalle sirene delle ambulanze nelle strade deserte, come se la città volesse raccogliersi per pensarlo e salutarlo mentre era ferita a morte dal Covid-19, il virus che sembra la metafora perfetta di un mondo malato, quel mondo del capitalismo finanziario globale a cui lui si era sempre opposto con tutte le sue forze.
Vittorio Gregotti oltre che architetto è stato professore universitario, scrittore, giornalista, imprenditore e storico dell’architettura, quasi un
Leon Battista Alberti contemporaneo.
In età giovanile, il destino gli ha fatto incontrare I Buddenbrook, romanzo che Thomas Mann ha dato alle stampe nel 1901 a soli ventisei
anni. Questo libro, che Gregotti ha letto e riletto nel corso di tutta la sua vita, lo ha profondamente condizionato. Lo racconta a Matteo
Vercelloni (“Interni”, aprile 2019): «Tutta colpa dei Buddenbrook, un libro che mi insegue da sempre […], una grande storia della fine
dell’industria e della borghesia che mi ha segnato».
Il padre lo vedeva suo erede al timone della Filatura Bossi, la fabbrica con quattrocento operai fondata dal bisnonno nel 1870, a Cameri, a sei chilometri da Novara. Abitava con la famiglia in una bella casa all’interno dell’area dello stabilimento.

Le opere riprodotte in questo articolo sono state realizzate, dove non diversamente indicato, dallo studio Gregotti Associati, fondato da Vittorio Gregotti a Milano nel 1974.
In Recinto di fabbrica, libro autobiografico sulla sua età giovanile, Gregotti racconta: «Se durante questi ormai numerosi anni mi sono svegliato presto […] credo che quest’abitudine sia da attribuire alla sirena di fabbrica che suonava ogni mattina alle sette»(1). Comunque, il capolavoro di Thomas Mann lo avrebbe spinto altrove, non volle essere un industriale, un protagonista “fin de race” di un mondo che stava scomparendo.