Nell’arte, il cibo non è che uno degli elementi della realtà che passa attraverso i filtri della sensibilità dell’autore, della sua vita e del complesso intrico di miti, rituali, memorie della società in cui vive. Nell’antichità greco-romana il cibo è rappresentato in modo veristico. A Roma, dopo l’età augustea, nel I secolo d.C. grazie agli straordinari contatti commerciali con tutto il mondo conosciuto, arriva, per dirla con Plinio il Giovane (61-114 d.C.) «tutto quanto la terra produce di bello e di buono» (Epistolario III, 5, 10). Alcuni, fra quelli che potevano permetterselo, abbandonano l’abitudine di nutrirsi per ragioni meramente fisiologiche e cominciano a scoprire, grazie anche all’arrivo delle spezie e dei profumi, un nuovo e più elaborato aspetto culturale dell’alimentazione. È l’avvento dei fastosi banchetti e dei sapori nuovi. Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella Naturalis Historia (VIII, 209) ci racconta di Mario Gavio Apicio, suo coetaneo, che definisce «il più grande tra tutti i scialacquatori». Apicio, il più famoso, raffinato e perverso gastronomo del suo tempo, ritenuto da Plino il Vecchio l’inventore del “foie gras” (fegato grasso) d’oca o anatra, pare avesse l’uso di ingozzare maiali e altri animali di fichi secchi per ingrossarne appunto il fegato (dal latino “ficatum”). Ghiri farciti, uteri di scrofa, pappagalli arrosto e altre prelibatezze erano spesso servite alla sua tavola.
Nel De re coquinaria, raccolta delle sue ricette, di cui resta un rifacimento in latino volgare, forse del IV secolo d.C., leggiamo di «carni e ricotte cotte più volte in acqua, latte ed olio ed infine, in salse arricchite di spezie» (VIII, 6). Contro questi costumi alimentari, sintomatici di un degrado morale, si scagliò Seneca, che rimpiangeva la frugalità ormai persa, la “parsimonia veterum”, quando nell’antica Roma i latini si nutrivano di “puls”, insipida polenta di farro cotta nell’acqua. I banchetti di Trimalcione, così ben descritti da Petronio Arbitro nel Satyricon, sono orge alimentari dove il cibo è una droga assunta fino all’overdose, fino all’esplosione del corpo. Un’esplosione che ricorda il film La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri nel quale Ugo Tognazzi sembra rappresentare un Trimalcione del XX secolo.
Nel Medioevo il cibo viene rappresentato più spesso simbolicamente. La dottrina cristiana stigmatizza il peccato di gola. Già sant’Ambrogio, nel IV secolo, aveva ammonito: «Chi indulge in cibi e bevande non crede nell’aldilà». Come sostiene Massimo Montanari, nel Medioevo, quando è ricercata per motivi spirituali, «anche la fame diventa oggetto di privilegio»(*). Il vino è bevuto da tutti, anche i poveri lo amano perché rende allegri e fa dimenticare i problemi.
Nei Mangiatori di ricotta di Vincezo Campi il petto discinto della figura femminile e la ricotta, entrambi bianchi, dialogano voluttuosamente
Nel XVI secolo, grazie all’arrivo dei nuovi prodotti dalle Americhe e dall’Oriente, nasce la cucina moderna. Mais, fagioli, tacchino, cacao, caffè, tè e soprattutto patate, senza le quali sarebbero morte di fame intere popolazioni. Cominciano a comparire i maccheroni, i vermicelli e le paste all’italiana ripiene, antenate dei tortellini.
In quegli anni, la rivoluzione copernicana allontana la Terra dal centro usurpato dell’universo e dà inizio a una lenta trasformazione che riporta l’uomo, ridimensionandolo, a se stesso. Il pianeta diventa oggetto di studio. Riappaiono, nei dipinti, le immagini alimentari nella loro concretezza, anche se la lacca vermiglia di una ciliegia, il lampo freddo di un pesce o l’oro di un limone possono essere soltanto un pretesto per esaltare la luce.

