Il Liberty italiano è stato riscoperto con crescente entusiasmo a partire dagli anni Sessanta. Da allora si sono succeduti studi, ricerche, restauri e continue iniziative di valorizzazione anche a livello locale, ma, nonostante le diverse rassegne che gli sono state dedicate, di cui due sole piuttosto vaste e di carattere generale (a Milano nel 1972 e a Roma nel 2011), è mancata in realtà una grande mostra in grado di restituire l'identità di quello stile, le sue diverse formulazioni nell'applicazione alle Irripetibile, pervaso dall'ottimismo, ma anche dalle inquietudini espresse dalla modernità. La forza del Liberty o dello "stile floreale" o dello "stile lineare" come in alternativa è stato chiamato, fu quella di creare un linguaggio e un'atmosfera comuni all'architettura e alle arti figurative, ma anche e in particolare a quelle applicate, come pure alla letteratura, il teatro e la musica. Erano gli anni euforici, tra l'ultimo decennio dell'Ottocento e lo scoppio della Grande guerra, della cosiddetta Belle Époque, quando il mondo venne percorso, e anche così l'Italia, dal sogno, dalla magnifica utopia di una bellezza che fosse in grado di interpretare la realtà trasformata dal processo tecnologico. Quindi anche la nostra giovane nazione, da poco unificata, venne unita, anche culturalmente, da una nuova estetica che fosse in grado di rappresentare, superando il naturalismo e lo storicismo che avevano dominato gran parte del secolo ormai verso la fine, le aspirazioni alla modernità.
Queste ambizioni e questa volontà di aggiornamento a livello internazionale vennero celebrate alle grandi esposizioni allora organizzate nella penisola.
Davvero epocali per la loro grandiosità e lo slancio furono quella internazionale d’arte decorativa moderna (Torino 1902), ospitata negli avveniristici padiglioni progettati per l’occasione dall’architetto D’Aronco, e quella, sempre internazionale, organizzata nel 1906 a Milano in occasione dell’apertura del magnifico traforo del Sempione. Ma ebbero un ruolo altrettanto decisivo, anche per la capacità di confronto con quanto avveniva nel resto d’Europa, le Biennali di Venezia iniziate nel 1895. E infine l’Esposizione internazionale che venne realizzata a Roma nel 1911 per celebrare degnamente il cinquantenario dell’Unità d’Italia. Diverse opere, che furono presentate e discusse a quelle rassegne, sono state rintracciate e compaiono nel percorso di una mostra che, con ben trecentocinquanta numeri in catalogo suddivisi in quindici sezioni a tema, ha voluto ricostruire la complessa vicenda del Liberty che è stato uno stile, non solo nel senso formale, ma in un’accezione più ampia di gusto, di stile di vita. Ho cercato, come curatore di questa mostra (Liberty. Uno stile per l’Italia moderna, Forlì, Musei di San Domenico, fino al 15 giugno) insieme a Maria Flora Giubilei e ad Alessandra Tiddia, di mettere particolarmente in rilievo il ruolo di promotore e mecenate di questo nuovo linguaggio artistico della Biennale di Venezia che commissionò in diverse occasioni delle importanti decorazioni per il Padiglione principale, quello dedicato all’Italia, o per altri spazi. Sartorio realizzò nel 1907 l’imponente ciclo il Poema della vita umana, di cui sono ora esposti nello scalone che porta al primo piano scandendo in maniera scenografica il percorso espositivo tre monumentali pannelli pervasi da un estro immaginativo straordinario. Mentre Chini, sempre nello stesso anno, creò il grande fregio, anch’esso in parte esposto, per la famosa sala del Sogno che celebrava l’affermazione definitiva della pittura e della scultura simboliste. Ancora a Chini si deve, nel 1914, lo splendido ciclo della Primavera classica, di cui è presente un pannello davvero impressionante per imponenza e bellezza. Ci ricorda nel suo splendore decorativo Klimt, i mosaici bizantini e l’arte dell’Estremo Oriente, in particolare del Siam. Il geniale artista toscano era stato alla corte imperiale di Bangkok dove aveva avuto occasione di mostrare la sua versatilità come pittore, decoratore e creatore di splendide ceramiche.

