«Pasticciodiostrichetrancidipesceconigliosalsapestosilfo formaggiomieletordimerlicolombipiccionipollicefaliarrostopalombicutrettolelepri mostardaalucce»(*).
Nell’epilogo delle Donne al parlamento di Aristofane (Ecclesiazuse, messa in scena in Atene alle Lenee del 391 a.C.), il coro presenta la ricetta di un pasticcio che sarà il piatto forte del banchetto finale della commedia, declamando un’unica parola che si dipana per ben sette versi. Si tratta di un composto impronunciabile, di grande effetto sul pubblico per l’abilità tecnica dispiegata dal drammaturgo, ma per la comicità di primo impatto, che fa leva sullo stesso sentimento di sorpresa e di leggero fastidio che ci colpisce oggi a leggere (o a sentir pronunciare da altisonanti e impettiti “maîtres”) le denominazioni elaboratissime di certi piatti da menu d’autore.
Prendiamo spunto da Aristofane per una riflessione sull’alimentazione, l’arte culinaria e il valore sociale della scelta delle vivande, e in particolare dei piatti a base di pesce, nella Grecia di madrepatria e delle ricche colonie d’Occidente. E notiamo che i primi ingredienti enumerati nell’impossibile parola aristofanea di ben centosessantanove lettere - pasticcio, o menu “continuatus” di portate e ghiottonerie assortite - si riferiscono alla sfera ittica: ostriche, tranci di pesce…
Va ricordato che nei banchetti della Grecia arcaica non si trova traccia di pietanze a base di pesce: nell’Iliade il pesce non è certamente il cibo preferito degli eroi, che si nutrono normalmente di carne, di pane e di vino. Anche nell’Odissea i Proci nella reggia di Itaca banchettano con carni e vino. Il pesce è soltanto un nutrimento povero e di riserva, a cui si ricorre in casi eccezionali per saziare la fame dei reduci dal “nostos”, il viaggio del ritorno a casa.
