«Inserire sempre il proprio corpo all’interno del campo del problema, usarlo, comprenderlo, come la base di qualsiasi
significato l’immagine possa produrre, è lo schema che emerge attraverso tutta la serie di esercitazioni che la Woodman svolge»(1). Così Rosalind Krauss riassume efficacemente, in un pugno di battute, la pratica di Francesca Woodman (Denver, 1958 - New York, 1981), figlia d’arte -
il padre George è pittore e la madre Betty scultrice ceramista - e appassionata di fotografia fin da ragazzina. Contrariamente a quanto si potrebbe
pensare, in questo suo gesto che trasforma il dato formale in personale, la realtà oggettiva in immagine mediata dal corpo, non c’è traccia di
narcisismo e neppure di erotismo. Il corpo è per la fotografa americana una cosa tra le cose, da studiare per la sua oggettività (o “Sachlichkeit”), che
a volte ha a che fare con il formalismo, altre volte con il surrealismo. È infatti spesso sezionato e osservato in una delle sue parti, riflesso in uno
specchio, celato da un velo o da una carta, mimetizzato nel contesto; oppure colto durante un movimento che lo rende evanescente.
È proprio questa
attenzione a un corpo “cosale”, ma non oggetto del desiderio, che viene apprezzata dalla critica d’arte femminista, tra cui ritroviamo anche
Krauss(2), che elegge il lavoro della poco più che adolescente Woodman ad antimodello di quello sguardo maschile ancora così presente nella rappresentazione del
nudo femminile nell’arte e nei media; persino quando a ritrarre o ad autoritrarsi sono le donne. Da qui la grande fortuna che Woodman, morta suicida
all’età di ventidue anni, ha avuto e continua ad avere, tra genio e diversità, mito e mistero.
Dentro l'opera
(AUTO)RITRATTI
A CORPO LIBERO
di Cristina Baldacci