Non sogno l’immortalità, mi basterebbe un quieto vivere. Per questo la storia di Kengjirō Azuma mi ha colpito e ha dato una logica ulteriore alle immagini che avevo visto in rete su una produzione così diversa, spirituale, personale. Per trovare le risposte occorre, infatti, andare indietro nel tempo, all’autunno del 1944, quando dopo l’attacco alle Filippine, la situazione militare del Giappone sembra compromessa e gli americani, che hanno iniziato a bombardare Tokyo, minacciano l’invasione. Avviene così che, nell’arco di dieci mesi, in una mossa disperata, quattromilaseicentoquindici giovanissimi aviatori detti “kamikaze” - termine tradotto abitualmente come “vento divino” -, entrano in un corpo speciale di volontari disposti a decollare con aerei alleggeriti da ogni elemento superfluo, compreso il carrello (che si sgancia al momento della partenza) per schiantarsi con duecentocinquanta chili di esplosivo sulle navi americane nel Pacifico. Non sempre gli attacchi riescono. Nove volte su dieci gli aerei vengono abbattuti, mancano il bersaglio, spariscono in acqua privi di carburante. L’offensiva dei kamikaze riuscì comunque a far affondare trentaquattro navi e a danneggiarne duecentottantotto. Il reparto, creato il 20 ottobre 1944, compì l’ultimo attacco il 15 agosto 1945, giorno della resa.
Kengjiro Azuma nasce a Yamagata, piccola città a nord di Tokyo il 12 marzo 1926 da una famiglia di artigiani del bronzo specializzati nella manifattura
di campane per templi. A diciassette anni, rimasto orfano, gonfio di retorica, lascia il liceo e si arruola nella divisione aeronautica Maizuru della
Marina militare. A diciannove anni, dopo un addestramento tanto duro quanto breve, è pronto a salire su un caccia Zero. La sua storia emerge dai suoi
racconti: «Ho partecipato alla guerra pieno di passione, contento di sacrificare la mia vita. Per noi giapponesi, Dio era l’imperatore. Noi ci credevamo
profondamente e io volevo offrire la mia vita per l’imperatore, per la patria, che amavo e volevo difendere. Per questo sono voluto diventare kamikaze.
Nessuno era obbligato. In quel periodo non avevo paura di niente, ero solo pieno di amore per il mio paese».