C'è stato un momento in cui i musei pullulavano di climatologi. Trascuravano ritratti, arte sacra e nature morte per
affollarsi soprattutto attorno ai paesaggi. Uno di loro, Hans Neuberger, nel 1967 esaminò dodicimila quadri di quarantuno musei europei e statunitensi,
li classificò per gruppi sulla base della provenienza geografica e li sottopose a un’indagine che prevedeva conteggio delle nuvole che vi erano dipinte,
loro categorizzazione (cumuli, cumulonembi, cirrostrati…) ed estensione, analisi della colorazione del cielo, valutazione della visibilità ambientale.
Lo scopo era capire se un dipinto poteva essere usato come dato attendibile per stabilire la situazione climatica di un luogo in un determinato periodo
e, su più ampia scala, contribuire a confermare le informazioni sulle fluttuazioni climatiche derivate da altre fonti.
L’assunto è che il clima
condiziona la produzione di opere d’arte. Affermazione vicina alla banalità nel caso se ne derivi soltanto, per esempio, che un pittore realizzerà
paesaggi diversi a seconda di dove si trova e del periodo dell’anno in cui dipinge. Ma questo tipo di ricerca conduce anche sul terreno scivoloso dello
statuto dell’opera d’arte: fino a che punto è lecito usare un dipinto come un documento? Cercare di trarre informazioni scientifiche (o economiche,
religiose, tecnologiche…) da un’opera d’arte mette a rischio la possibilità di continuare a considerarne il valore estetico? Fino a che punto ci si può
spingere nel forzare le intenzioni dell’artista?
Non è questo il luogo per entrare nel merito della dimensione ermeneutica delle opere d’arte. È qui sufficiente condividere il dato che ogni artefatto
umano è di per sé un “documento”, leggibile a diversi livelli e per diversi scopi. Tutti condizionati dai filtri culturali, ideologici, storici del
“lettore”, dalle sue tecniche di indagine, intenzioni e nozioni. Questo assunto rende dunque lecito cercarvi prove relative al clima quanto, per
esempio, pretendere di cercarvi “bellezza”.