Grandi mostre. 3
Van Gogh e Artaud a Parigi

verso la
deflagrazione

Il caso Van Gogh torna alla ribalta con l’esposizione in corso al Musée d’Orsay. Questa volta, però, la chiave di lettura è fornita non da un critico o storico dell’arte ma dall’attore, scrittore e regista teatrale Antonin Artaud che, con il suo saggio Le suicidé de la société, offre lo spunto per una rivalutazione totale del genio olandese vissuto in una società ostile alla diversità.

Matteo G. Brega

La mostra dedicata a Van Gogh, in corso fino al 6 luglio al Musée d’Orsay di Parigi, è connotata da una serie di caratteristiche che non possono non suscitare approvazione e interesse. Per prima cosa è una “normale” personale su Van Gogh - che in tempi di vari fantasiosi accostamenti “da … a” non è cosa da poco - ma, allo stesso tempo, non lo è nel senso usuale del termine: si basa infatti su una premessa critica elaborata non da un critico d’arte ma da un artista, Antonin Artaud, nel 1947. Artista che utilizzò a sua volta l’occasione di un’esposizione pittorica per parlare della società nel suo complesso, e in termini particolarmente profondi e intransigenti. La curatrice della mostra di oggi, Isabelle Cahn, ha deciso di intitolare la manifestazione con lo stesso titolo del pamphlet che Artaud dedicò in quel 1947 a Vincent van Gogh, Le suicidé de la société. Un titolo che vuole essere al contempo una presa di posizione nei confronti dell’arte del maestro olandese e, in misura maggiore, un attacco senza mezzi termini nei riguardi della società sotto l’aspetto dei sistemi di controllo messi in opera rispetto alla follia. Più in generale, e con una grande capacità previsionale, l’attacco di Artaud è nei confronti dei rapporti sociali tipici dell’allora incipiente seconda parte del Novecento, sempre più ostile per chi, come i folli o i veggenti, ne scorge l’orrore intrinseco, messo a nudo dal crollo delle certezze. 

La psichiatria ha riservato, nel corso degli anni, uno speciale interesse nei confronti dei “geni folli”, cioè coloro che pur evidenziando capacità artistiche o intellettuali superiori alla norma, mostravano comportamenti alienati o distruttivi o distonie rispetto alla convivenza sociale. Il caso Van Gogh è un classico della psichiatria in quanto il pittore olandese non palesava soltanto semplici eccentricità comportamentali, bensì condusse tutta la propria vita secondo modalità estreme, non ultime le tendenze automutilatorie e autodistruttive che sarebbero poi sfociate nel suicidio. 

In occasione di una retrospettiva su Van Gogh del 1946-1947, il gallerista Pierre Loeb suggerì ad Artaud, attore e autore teatrale, egli stesso reduce da anni di internamento psichiatrico, di prendere posizione nei confronti della vulgata che vedeva l’arte di Van Gogh come frutto di un rapporto squilibrato con la realtà, e quindi un’arte implicitamente ridimensionata a prospettiva “parziale” sul mondo, condizionata da eccessi e sbilanciamenti stilistici, sicuramente suggestivi ma essenzialmente fini a se stessi se non addirittura mai completamente comprensibili.


Tutte le opere di Vincent van Gogh illustrate in questo articolo sono conservate al Musée d’Orsay di Parigi. Man Ray, Antonin Artaud (1926), Parigi, Centre Pompidou.