Nel 1953, anno in cui viene allestita a Milano la mostra I pittori della realtà in Lombardia, Roberto Longhi rivela «nell’inclinazione del Moroni il fondamento realistico che reggerà l’arte lombarda per due secoli», e descrive i suoi ritratti «così veri, semplici, documentari da comunicarci addirittura la certezza di averne conosciuto i modelli». Questo fondamento realistico (inaugurato dal Lotto del periodo bergamasco, da Moretto, Savoldo e Romanino) viene ereditato dagli altri grandi artisti lombardi dei due secoli successivi: Caravaggio, Ceresa, Baschenis, Fra Galgario, Ceruti.
Giovan Battista Moroni (Albino, Bergamo, 1520/1524 circa - 1579) indaga le varietà individuali delle persone, il loro ruolo sociale in un periodo in cui la società sta accettando i precetti morali e di vita dettati dalla Controriforma. All’inizio dell’ottavo decennio del Cinquecento, l’artista si specializza nell’indagine psicologica, che diviene profonda e variata, si concentra sull’approfondimento naturalistico, mentre la materia pittorica diviene più atmosferica. E, da scrupoloso cronista, rivela i suoi ritrattati come interpreti di un momento storico, soffermandosi, oltre che sui volti e i gesti delle mani, anche sull’aspetto iperdescrittivo e fortemente mimetico degli abiti.
Il Cavaliere in rosa (1560) assume inoltre l’aspetto di un’impresa simbolica (avendo in mente il modello di Lotto), basata sul contrasto degli opposti vitamorte, primo-ultimo, alto-basso, discesa-ascensione. Lo sguardo fiero di Gian Gerolamo Grumelli e il suo abito rosa contrastano l’imminenza della caducità del mondo. L’abito alla spagnola, reso con una cromia setosa, risalta nell’ambiente in rovina, e anche il colore acceso delle gote pone in risalto il flusso vitale che scorre nel corpo dell’uomo, ventiquattrenne. La statua e il pezzo di marmo sopra cui appare la data del quadro («MDLX») alludono alla caducità delle cose e alla “vanitas” della materia. Al di sotto della nicchia è posto un bassorilievo con la scena biblica del rapimento in cielo di Elia sul carro di fuoco. Eliseo attende il mantello, che il profeta ha lasciato volutamente cadere durante la sua ascensione per lasciare al discepolo la traccia e la testimonianza di un evento metafisico e l’eredità della “virtus” profetica. Sotto il bassorilievo appare la scritta in lingua castigliana «mas el çaguero que el primero» (Meglio l’ultimo del primo), testimoniando l’influenza spagnola nei territori bergamaschi all’epoca in cui è stata realizzata l’opera. È curioso notare come Moroni abbia disegnato la spada dell’uomo ritratto proprio passante nel mezzo del bassorilievo, andando volutamente a dividere, o meglio a tracciare un confine tra la figura di Eliseo e quella del mantello discendente dal carro di fuoco. Tutto pare suggerire un’inversione di significati: anche la scritta sembra dare più importanza a Eliseo (“l’ultimo”) rispetto a Elia (“il primo”) assunto in cielo. L’edera, solitamente associata all’ascesi dell’anima verso Dio per la sua capacità di abbarbicarsi sui tronchi degli alberi e salire verso l’alto, nel quadro scende invece verso il basso, in direzione della statua classica ormai in rovina.

