Prima di aprire il grande capitolo della Roma papalina Raffaello si soffermò con l’anima e il cuore in Umbria, terra dalle colline digradanti, battagliera ma allo stesso tempo dolce e spirituale, che lo accolse, poco più che diciassettenne, con ancora negli occhi la luce pierfrancescana della sua infanzia e nella mente le perfette geometrie architettoniche della corte federiciana.
In questa fase, meno conosciuta ai più, in un continuo avvicinarsi e allontanarsi dall’«editoriale peruginesca» (Roberto Longhi), si formò un piccolo
tassello di quella “virtù visiva” che, finita la parabola breve e intensa della sua vita, fece uscire l’artista dalla storia e dalla cronaca, per
innalzarlo a una dimensione mitica trasformando la sua pittura in una vera categoria estetica.
Furono proprio i cieli umbri, nitidi e luminosi, che vide affacciandosi dalle mura di Perugia o guardando gli sfondi ariosi del «divin pittore» (come
Perugino fu chiamato da Giovanni Santi, padre di Raffaello) a unire come una sorta di fil rouge i primi capolavori del Sanzio, avvolgendo emotivamente
le figure e diventando, come disse Berenson, una sorta di «guaina dell’anima».
Ripercorrere le orme del Raffaello umbro, è però una sorta di racconto dell’assenza. La sua presenza è viva nell’immaginario collettivo e nel pantheon
locale delle città che lo hanno ospitato(1), ma le opere, vuoi per la vendita a collezionisti stranieri, vuoi per le requisizioni napoleoniche, campeggiano oggi, smembrate e decontestualizzate,
come un totem del bello ideale, in molti musei del mondo.