triennale
di yokohama

Cristina Baldacci

Con piglio anticonformista e ironico, Yasumasa Morimura ha reinterpretato miti e icone della storia dell’arte e della cultura visuale moderna e contemporanea, inscenando raffinati travestimenti, che, di volta in volta, lo hanno portato a mettersi nei panni di capolavori come l’Olympia di Manet, di altri artisti performer, tra cui Dalí e la Sherman, oppure di star del cinema, come la Dietrich e Marilyn, e di personaggi politici, da Hitler a Che Guevara. Dietro l’apparente ludicità di questi “camoufage” che, per quanto accurati, esprimono sempre una forte identità etnica, data dagli inconfondibili (e inoccultabili) tratti somatici asiatici, c’è una riflessione profonda sull’influenza che la cultura occidentale ha avuto su quella orientale e giapponese in particolare. Sarà interessante vedere come Morimura se l’è cavata impersonando un nuovo ruolo, quello di curatore della quinta edizione della Triennale di Yokohama, che inaugura il prossimo 1° agosto (fino al 3 novembre). I presupposti promettono bene. Il tema centrale della mostra è la perdita, intesa come tutto ciò che di solito viene dimenticato o tenuto nascosto, e il titolo scelto da Morimura, Fahrenheit 451: Sailing into the Sea of Oblivion (Fahrenheit 451: navigando nel mare dell’oblio) si ispira a un racconto fantascientifico del 1953 di Ray Bradbury (poi diventato anche un film di Truffaut), in cui, per contrastare la minaccia della perdita del sapere in un mondo dove i libri sono stati messi al bando e vengono bruciati, gli uomini imparano a memoria pagine e pagine di letteratura. In omaggio alla storia di Fahrenheit 451, la mostra è stata strutturata come un libro, con due introduzioni e undici capitoli. Ad aprire questa narrazione per immagini saranno alcune installazioni, tra cui Art Bin (2010) dell’inglese Michael Landy, un’enorme “discarica” composta da opere d’arte rifiutate dai loro stessi autori, che diventa un allegorico «monumento al fallimento creativo». Mentre tra i vari capitoli o sezioni della mostra citiamo il primo, che appare il più denso e ricco, e che è dedicato al silenzio e ai sussurri (il titolo completo è “Listening to Silence and Whispers”), e il sesto, che invece presenta alcuni “enfants terribles” dell’arte. Nel primo caso, l’attenzione è rivolta a opere di stampo concettuale e minimalista, come i monocromi di Blinky Palermo o le tele astrattogeometriche, a righe e quadretti, di Agnes Martin; le ricerche tra il calligrafico e il verbo-visuale di Hiroshi Kimura; e i “giochi” sagaci di René Magritte, precursore di molte attitudini delle seconde avanguardie, e di Marcel Broodthaers - che di Magritte fu amico e ammiratore -, in mostra con la sua surreale e divertente Interview with a Cat del 1970, dove disquisisce di pittura con un gatto. Nel secondo caso, tra gli irriverenti dell’arte troviamo Andy Warhol e Gregor Schneider, da anni impegnato nella costruzione di ambienti oscuri e perturbanti. Accanto alla mostra, che Morimura ha definito come «un viaggio per educare lo sguardo», da tenere d’occhio anche il ricco programma di eventi.


La quinta edizione della Triennale di Yokohama è un omaggio a Fahrenheit 451 di Ray Bradbury


Michael Landy, Art Bin (2010).