«Se fossi un uccello / io canterei con la gola arrochita / questa terra battuta dalle tempeste / questi fiumi vorticosi gonfi della nostra collera / questo vento furioso che soffia incessante / e l'alba dolcissima che si fa strada tra i boschi... / - poi morirei / e anche le piume si decomporrebbero nella terra»(1). Con queste parole - che certamente in lingua originale suonerebbero più liriche - il grande poeta Ai Qing, padre di Ai Weiwei, cantava l'amore per la sua terra - la Cina -, la necessaria quanto dolorosa presa di coscienza della sua straboccante energia e del suo drammatico destino, delle feroci tempeste e degli atroci e taciuti soprusi che la nomenclatura politica, come una natura-matrigna, esercita tutt'oggi noncurante sulla sua popolazione. Tre volte candidato al premio Nobel, nel 1978, dopo la morte di Mao Zedong e dopo vent'anni di forzato silenzio e relegazione a lavori forzati nella remota regione dello Zinjiang a pulire latrine, Ai Qing viene rilasciato e torna a scrivere. La sua poesia Un pesce fossile (riportata qui nell'ultima pagina) rimane lapidaria e pietra miliare nella storia della poesia cinese: descrive la sua miserrima condizione sotto al censura, la necessità della lotta e della militanza quotidiana, e narra della sua personale rinascita poetica. Così Ai Weiwei, memore dei versi del padre e della sua celebrazione del movimento e della lotta, continua ad agitarsi, ad accendere dibattiti internazionali e provocare disordini interni, per arginare l'omertà del suo paese, l'ipocrisia della sua politica e l'iniquità della sua classe dirigente e del partito.
