Uno sperimentatore. Un accanito ricercatore dell’essenza dell’arte al di là di ogni tempo e luogo. Modernismo, antimodernismo, avanguardia, classicità, per André Derain erano solo termini, parole, che imbrogliavano la sua ricerca di un’arte che fosse tale sempre, a qualsiasi epoca appartenesse.
A ricordargli che, nell’arte, oltre al presente c’era anche un passato erano stati la sua cultura classica appresa al liceo Chaptal di Parigi, le molte letture giovanili e la frequentazione del Louvre. Esponente del fauvismo, uno dei movimenti più rivoluzionari del primo Novecento, amico e in scambio continuo con i maggiori innovatori del tempo - Picasso, Matisse, Braque -, non aveva potuto fare a meno di incantarsi di fronte ai dipinti di Corot, «uno dei più grandi geni del mondo occidentale», o ai paesaggisti del Seicento, recuperandoli nel suo stile personale, plastico, duro, ricco di luci e ombre.
Ombroso anche lui, complesso, malinconico, saturnino. Instabile, tormentato dal «dubbio moderno», come chiamava la sua fatica esistenziale. L’amico Maurice de Vlaminck lo ricorda: «Rivedo un Derain ventenne vagabondare per le strade di Chatou […]. Parlando, passava continuamente dall’amarezza all’umorismo, dalla stanchezza al tedio, dall’entusiasmo alla fiducia e poi al dubbio».
Era nato il 17 giugno 1880 a Chatou, ridente borgo nei dintorni di Parigi, da un padre lattaio, consigliere comunale della cittadina. Dopo gli studi classici, nel 1898 si iscrive all’Académie Camillo, dove conosce Matisse, Marquet, Rouault. Nel 1900 apre un ate lier con Vlaminck sull’Île de Chatou lungo la Senna. Dopo tre anni di servizio militare a Commercy, nel 1904 entra all’Académie Julian di Parigi dove conosce Apollinaire, scrittore e critico d’arte suo coetaneo, che lo seguirà sempre.