rifuggono il bombardamento mediatico di parole e immagini, per questo i due artisti portoghesi João Maria Gusmão
e Pedro Paiva - entrambi nati a Lisbona, l’uno nel 1979, l’altro nel 1977 - non si lasciano intervistare né fotografare. Sono le loro opere,
soprattutto film, ma anche fotografie, sculture, installazioni e libri d’artista strutturati come antologie di scritti teorici, a parlare per loro.
E guai a nominare o confondere le loro pellicole per video: l’amore per il cinema delle origini, dai documentari dei fratelli Lumière alle visioni
magiche di Georges Méliès, li ha portati a realizzare filmati rigorosamente analogici, in 16 o, a volte, 35 mm, e senza sonoro, a esclusione del
ronzio prodotto dai proiettori. Insieme al buio totale degli ambienti, che per gli artisti è prerogativa necessaria alla visione, questa estetica
démodé rinnova l’esperienza che si faceva nelle sale cinematografiche d’un tempo.
Anche le immagini proiettate sono tutt’altro che
contemporanee: le riprese sono sì fatte nel presente, ma appartengono a un immaginario sospeso nel tempo, lontano dal mondo occidentale e dalle mode
di mercato. Gusmão e Paiva riprendono tutto ciò che è anomalo o apparentemente insignificante: una ruota che gira (Wheels, 2011), un
pappagallo che parla goffamente sbattendo le ali (Glossolalia - “Good Morning”, 2014), una donna nuda che si sdraia a letto (Getting into Bed, 2011), una trama di lunghissimi spaghetti ancora in lavorazione (Spaghetti Tornado, 2010). L’effetto straniante viene acuito dall’uso
dello “slow motion”, che rallenta moltissimo gesti, azioni e accadimenti. È così che, in un’atmosfera tra l’onirico e il primordiale, la narrazione
risulta il più delle volte goffa, ripetitiva, assurda, ma, nello stesso tempo, affascinante. Si rimane come ipnotizzati davanti a queste immagini
dall’andamento quasi pachidermico, che accentua il lato perturbante e surreale di oggetti e fatti quotidiani: un africano cieco che addenta una
papaya sembra una creatura mitica che consuma un fiero pasto (Solar, the Blindman Eating a Papaya, 2011); la maestria con cui un pasticcere
arrotola i suoi croissant diventa un gesto pieno di pathos e attesa (Rolling a Croissant, 2014).
Come due scienziati e filosofi
amatoriali, Gusmão e Paiva studiano a fondo ogni cosa e sono attratti da ciò che rimane misterioso, oscuro all’intelletto. Sono, così come era stato
uno dei loro punti di riferimento a inizio del secolo scorso, il poeta parasurrealista René Daumal, due fautori di “abissologia” o teoria
dell’indiscernibile. Hanno fondato persino una Sociedade Internacional de Abissologia, pensata come piattaforma di ricerca e di promozione teorica.
Alle spalle della produzione filmica dei due artisti c’è infatti una solida preparazione filosofico-letteraria e pseudo scientifica, con richiami a
celebri autori, come Newton, Darwin, Bergson, Pessoa e, soprattutto, Alfred Jarry, il padre della “patafisica”, quella corrente artistica o «scienza
delle soluzioni immaginarie» per la quale la verità assoluta non esiste, esistono solo verità parziali e mutabili. I patafisici hanno un’attitudine
irriverente, ironica, paradossale nei confronti della realtà, si oppongono alla razionalità matematica e alla visone antropocentrica del mondo;
sondano tutto ciò che è diverso, eccezionale, altro; e il loro motto non è «cogito ergo sum», bensì «imago ergo sum», secondo la parafrasi che il
“patapittore” Enrico Baj fece della celebre espressione cartesiana.
L’abissologia è, in successione cronologica, l’ultimo dei percorsi
tematici che guida il lavoro di Gusmão e Paiva. Prima che nel 2006 spostassero la loro attenzione su questo argomento, i due si erano interessati
all’“effluvio magnetico”, un concetto ripreso dal romanzo L’uomo che ride (1869) di Victor Hugo, che allude all’incertezza della vita e al
burrascoso rapporto tra uomo e natura (“Eflúvio Magnético” è anche il titolo di una rivista filosofico-letteraria da loro curata e uscita in due
volumi); e alla “paramnesia”, che invece si riferisce al cosiddetto “déjà vu”, cioè alla discontinuità nel processo percettivo, un campo d’indagine
che ha appassionato Gusmão e Paiva durante gli anni della loro formazione all’Università di Lisbona, dove si sono conosciuti e hanno cominciato a
collaborare nel 2001.
Fonte d’ispirazione per molti dei loro film più recenti è una ex colonia portoghese, l’arcipelago di São Tomé e Príncipe
nel golfo di Guinea (Africa centro-occidentale), dove la coppia ha soggiornato prima nel 2011 e poi nel 2014. Qui sono stati girati film come
Cross Eyed Table Tennis (2014), dove il movimento delle palle degli occhi di due africani strabici si alterna a quello della palla da
ping-pong che vola da un lato all’altro di un tavolo turchese; Falling Trees (2014), dove un gruppo di uomini che abbatte con la motosega
un grande albero della foresta, ridotto a una pioggia di trucioli, diventa metafora della tirannia della tecnologia sulla natura; e Papagaio (2014),
la pellicola più lunga che i due artisti hanno prodotto fino a oggi (dura quarantatré minuti contro i due o tre di media dei film precedenti). Le
riprese di questo ultimo lavoro sono state fatte durante un rito animista e mostrano una vorticosa danza di tipo vudù che porta a uno stato di
trance collettiva, in cui lo spettatore ha la sensazione di essere coinvolto in prima persona, perché la telecamera è stata più volte messa in mano
ai partecipanti e sobbalza a destra e a manca.
Per chi non ha avuto modo di vedere i film di Gusmão e Paiva né alla Biennale d’arte di Venezia
del 2009, nel padiglione del Portogallo, né a quella del 2013, nella mostra centrale, una buona occasione per conoscere il loro lavoro è la
personale in corso all’Hangar Bicocca di Milano (Papagaio, fino al 26 ottobre), che, oltre a una ricca selezione di pellicole, presenta tre
Camera Obscura, ovvero installazioni che, seguendo l’esempio dell’antico dispositivo ottico da cui prendono il nome, ricreano immagini in movimento
unicamente attraverso la luce e il moto di alcuni oggetti nascosti in una sorta di scatola-ambiente.


