Il senso nascosto


il rebus
di venere

di Marco Bussagli

igiochi di parole con le figure, i rebus, le analogie formali e linguistiche non sono una novità nella produzione pittorica. Tanti possono essere gli esempi, dalla celebre Ginevra de’ Benci dipinta da Leonardo da Vinci con l’albero di ginepro sullo sfondo, ai festoni di quercia (rovere) affrescati da Michelangelo fra gli Ignudi della Cappella sistina in onore di papa Giulio II della Rovere, fino alla Lucina Brembate di Lorenzo Lotto, dipinta sotto un cielo stellato abbellito da una falce lunare che contiene le lettere «C I» per completare il nome, giù giù fino alle più contemporanee opere di Renato Mambor ispirate alla settimana enigmistica(1). Tuttavia, non si tratta soltanto di passione per gli indovinelli, è che le “rime” figurative e linguistiche, quando sono ben costruite e ben concepite, finiscono per dire assai più di quello che mostrano. Lo sa molto bene Luca Maria Patella, uno dei più importanti e raffinati artisti dell’Italia contemporanea, le cui opere sono sempre il risultato di un profondo lavoro di ricostruzione trasversale fra l’universo visivo e quello letterario, e altro non sono se non le due facce della stessa medaglia o, se si preferisce, i due emisferi del cervello umano(2). Così, dal momento che la Nuova Pesa, la storica galleria romana di Simona Marchini, allestiva una mostra dell’artista romano con una nuova creazione e, soprattutto, con opere importanti ormai da collezione (lo ricordo mio maestro quando studiavo incisione alla Calcografia nazionale), commentate con grande finezza in catalogo dalla curatrice Michèle Humbert, si è presentata una ghiotta occasione per riflettere su questo tema e dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, che certa arte contemporanea non ha per nulla dimenticato la grande lezione del Rinascimento, ma ne ha semplicemente (si fa per dire) reinventato il linguaggio(3). Del resto Luca Patella è autonomamente da sempre nella scia di quello straordinario Marcel Duchamp che ha segnato con la sua felice creatività buona parte dell’arte contemporanea, come un Giano bifronte che, da una parte, guardava al passato di Lorenzo Lotto o di Parmigia nino e, dall’altra, alle novità di de Chirico e dei futuristi(4). Così, quando mi si è parato dinanzi agli occhi, in fondo alla sala più grande e bella della galleria, il Templum cum patella del 1989, mi sono venuti alla mente una serie di rimandi che sono parte integrante dell’opera sebbene siano solo evocati. Il piccolo tempio di legno con quattro finte colonne e un unico timpano, contraddetto in alto da una balaustra rinascimentale ricorda, a chi sa guardare, che la tradizione classica cui si vuole alludere non si ferma al mondo greco-romano, ma si estende fino al Barocco e al Neoclassico, prendendo idealmente tutto l’arco temporale nel quale era giustificato pensare a Venere come alla dea dell’amore, oltre che al pianeta del sistema solare. Al centro, splendente nel suo rosa porcellanato, sta una grande conchiglia - per l’esattezza una “Barycypraea fultoni”, ossia un mollusco gasteropode (come una lumaca) della famiglia delle cipree - che l’artista, per suoi evidenti motivi linguistici, chiama «patella». Effettivamente, con questa parola, come pure in spagnolo, si può indicare la conchiglia (anche se, per esser precisi, si tratta di quello che chiamiamo nicchio, quella che i pellegrini di Santiago di Compostella si appuntavano sul cappello).


Che cosa significa la conchiglia che Luca Patella
ha posto al centro del suo piccolo tempio?



La piccola forzatura, però, è ampiamente giustificata dal fatto che, così, è lo stesso artista a essersi collocato al centro del suo tempio che è di certo quello dell’arte. Un’arte crepuscolare che si palesa quando «iam humida Nox declinat», ossia quando ormai l’umida notte volge al giorno e, quindi, all’alba, quando la luce sorge… quella che illumina il tempio e la sua conchiglia che è Luca in persona. Ma perché Patella non ha sistemato nel suo Templum un nicchio che si sarebbe potuto legittimamente chiamar come l’artista?(5). La risposta sta nel suo amore per le contaminazioni e nel suo Le boudoir de Venus del 1985, dove nel rosso «salottino» della dea, ai lati della Venere scolpita, c’erano anche due tempietti - di cui uno come quello che conosciamo - che incorniciavano altrettante foto di Afrodite nuda. Allora si spiega bene il perché di una conchiglia della famiglia delle cipree che pare raccolta sulle sponde del mare di Cipro che vide la nascita di Afrodite. Così, il tempio di Patella è quello dell’Amore e la sua “patella” è figlia di quel percorso che dalla Venere di Botticelli, si dipana verso l’Anadiomene di Ingres, la Venere di Odilon Redon, l’Origine del mondo di Courbet, l’Iris di Rodin, la Terra erotica di Masson e, naturalmente, l’Etant donnés di Marcel Duchamp(6). Dunque, il senso nascosto è questo: il Templum cum patella è il luogo della vita e dell’arte, grazie alla presenza di… Patella(7).



Luca Patella, Templum cum patella (et iam humida Nox declinat) (1989), particolare e intero.