la mistica ebraica di tradizione orale e la cabala, assieme all’ermetismo e all’alchimia, permeano il pensiero umanistico dei più illuminati ingegni del Rinascimento. E il pensiero speculativo degli umanisti irrora a sua volta, con un travaso di idee prodigiose e di collegamenti sincretici, il fertile terreno creativo degli artisti e degli architetti nelle corti italiane tra Quattro e Cinquecento. La cabala neoplatonica di Pico della Mirandola, leggibile come mezzo privilegiato per attivare la magia naturale e quella del linguaggio, viene ulteriormente sviluppata nel Cinquecento da Johannes Reuchlin, Egidio da Viterbo, Francesco Giorgio (Zorzi) Veneto e Cornelius Agrippa. Anche gli osservanti francescani studiano approfonditamente la cabala, adottandola però come strumento per convertire gli ebrei al cristianesimo. Esemplare è un commento manoscritto alle Conclusiones cabalisticae di Pico, redatto dal cardinal Cristoforo Numai da Forlì, scampato al Sacco di Roma(1).
Oltre ad attingere alla tradizione ebraica(2), Pico ricorre anche a una metafisica dell’armonia pitagorica e del numero intese come
«entità reali» dotate di forze naturali: «A me interessa quella parte della cabala che tratta dei poteri dei corpi celesti e quella parte della
scienza naturale, che io chiamo magia naturale e che hanno chiamato così anche diversi dottori cattolici come Guglielmo d’Alvernia e Alberto
Magno»(3). A Venezia, dopo la cacciata degli ebrei sefarditi dalla Spagna nel 1492, la ricerca umanistica di Zorzi(4) viene
arricchita dalle ondate di studiosi che trovano rifugio nella comunità ebraica riparata nel ghetto, divenuto centro nevralgico di studi cabalistici.
La chiesa di San Francesco della Vigna, intesa come fosse una traduzione in opera d’arte di speculazioni cabalistiche di Giorgio Veneto, sintetizza
la concezione di un’architettura dell’universo espressa attraverso leggi numeriche, ritmi e musica, come rimandi all’armonica proporzionalità, la
perfetta misura e la musicale bellezza del cosmo. Reuchlin rivela a Leone X che le dottrine pitagoriche e la cabala degli ebrei stanno celate
nell’accademia laurenziana, nella Firenze di Ficino e Pico, dove ha preso corpo l’idea di una nuova “pia philosophia”, di stampo sincretistico, e di
una koiné magicocabalistica: «dai precetti dei cabalisti ha preso inizio la filosofia di Pitagora, che a memoria dei patriarchi lasciando la Magna
Grecia si applicò nuovamente ai libri dei cabalisti. Quasi ogni cosa andava infatti tratta da lì. Per questa ragione io ho scritto dell’arte
cabalistica, che è filosofia simbolica, in modo che gli studiosi potessero conoscere i dogmi dei pitagorici»(5).
Uno dei molti
esempi di filosofia simbolica confluiti nell’architettura e nelle opere d’arte del Rinascimento è la rampa centrale dello scalone della Libreria
laurenziana, disegnata da Michelangelo attorno al 1524 e realizzata da Bartolomeo Ammannati nel 1559: è composta da quindici gradini ellittici, come
quella che i sacerdoti ebrei utilizzavano per salire nel santuario dell’antico tempio di Gerusalemme. La curvatura serviva per ricordare ai credenti
di piegare la loro volontà a quella di Dio, come fosse una tecnica di meditazione dei sacerdoti per allenare la mente a elevarsi trionfando su se
stessi, mentre il numero 15 rinviava ai Salmi delle ascensioni, dal 120 al 134. I nove gradini dritti delle due rampe esterne rimandano,
secondo la Gematria cabalistica (l’antico sistema numerologico ebraico), alla verità (espressa simbolicamente dal numero 9) e alla vita (18).
Nella storia dell’arte del Rinascimento vi sono alcuni esempi che testimonierebbero un contatto diretto di artisti cristiani con narrazioni,
tematiche o simbologie di derivazione meramente ebraica. I più probanti sono i quadri dove compaiono due figure di Cristo infante nel Tempio, come
nelle scene con Gesù fra i dottori del Tempio dipinte da Bergognone (ora nel museo di Sant’Ambrogio a Milano) e da Defendente Ferrari (ora
nella Staatsgalerie di Stoccarda). La tradizione ebraica ha più volte fatto riferimento all’attesa di due Messia, uno sacerdotale e uno di stirpe
regale, come si può leggere nei Salmi e nell’Enoc etiopico(6). Alcune opere di Giorgione sono state riferite a significati
derivati dalla cultura ebraica(7), ma le letture e le interpretazioni non convincono fino in fondo. Per esempio
Mosè alla prova del fuoco (dipinto attorno al 1504, probabilmente in relazione con il Giudizio di Salomone) descrive un episodio
del Talmud poco conosciuto nella cultura cristiana. Ma potrebbe anche essere stato tratto da una rielaborazione medievale di un racconto presente
nelle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio (II, 9, 7), poi riproposto nello Speculum humanae salvationis, un testo degli inizi del XIV
secolo. Il coperto simbolico Sansone tradito da Dalila, accecato e messo alla macina (1531), invece, ideato da Lorenzo Lotto per
il coro di Santa Maria Maggiore a Bergamo, parrebbe una testimonianza eloquente di un contatto diretto dell’artista veneziano con un intellettuale
ebraico o con qualcuno che conosceva i sottili rimandi della cabala. Sansone - nella lingua ebraica Shimshòn (“del sole”) deriva dalla parola
“shèmesh”, che vuol dire “sole” - è inteso qui anche come rimando al “sole di giustizia”, vicino alla visione neoplatonica di Marsilio Ficino.
Il redattore biblico della storia di Sansone riprende un racconto arcaico della tradizione ebraica inerente al mito solare. Tutta la
narrazione concorre a celare il viaggio del sole nel cielo. La forza di Sansone aumenta in relazione alla crescita dei suoi capelli, intesi come i
benefici raggi solari. I filistei, chiamati «Potenze delle tenebre», sono una metafora dei mesi invernali, e combattono il Portatore di Luce. Dalila
(il nome ebraico Laila significa “notte”) rappresenta il segno zodiacale della Vergine, ovvero il mese di settembre, quando Sansone, dopo aver
raggiunto la massima forza e calore nel “sol Leone”, posa il capo sul seno della sua amante, confidandole il segreto riposto nella sua capigliatura.
La “notte” addormenta il “sole” e taglia i suoi capelli. In questo segno i raggi solari diminuiscono e cominciano a perdere la loro forza. I
filistei, che come si è detto rappresentano i mesi invernali, catturano il “sole” indebolito e lo accecano, portandolo poi nelle loro prigioni.
Sansone viene legato alla macina, e deve compiere il suo giro annuale, attendendo che ricrescano i raggi e la forza. L’atto della distruzione del
tempio dei filistei da parte di Sansone, con il sacrificio, permette la nascita di un nuovo “sole”, destinato a salvare l’umanità dal freddo dei
mesi invernali. Anche in un’altra tarsia del coro della basilica bergamasca, nel coperto simbolico Magnum Chaos, Lotto raffigura
un’immagine solare con un nucleo di cerchi concentrici - come fossero dieci sephiroth o emanazioni di JHWH (il tetragramma biblico con le quattro
lettere che compongono il nome di Dio) presenti nello Zohar, un astro inteso come emittente principale dello spirito, “Luce senza limiti” (in
ebraico “Or Ein Sof”), un sole presente anche nell’idea del Teatro della memoria di Giulio Camillo Delminio, il più influente filosofo naturale e
cabalista nella Venezia del primo Cinquecento.



