dell’Università di Torino, o nel Centro di documentazione di Storia della psichiatria San Lazzaro di Reggio Emilia), che oggi definiremmo di Art Brut, non sono nate sulla base di un interesse estetico, ma come testimonianza della devianza e oggetto di studio della scienza positivista ottocentesca. In particolare, nella raccolta dello psichiatra Marro, si conserva un’opera che appare allo sguardo odierno del cultore di Art Brut un vero capolavoro; si tratta del Nuovo mondo di Francesco Toris: un assemblaggio di centinaia di ossa animali levigate e cesellate come avorio, incastrate l’una nell’altra a formare un traliccio labirintico abitato da figure, idoli e animali fantastici. Toris (1863-1918), dopo un’infanzia da trovatello, era diventato carabiniere a Torino quando, colto da un improvviso delirio di persecuzione, viene ricoverato a trentatre anni nel manicomio di Collegno, dove resterà fino alla morte.
Dopo due anni dal suo internamento, inizia a lavorare sulle ossa che si procura nella cucina dell’ospedale creando da sé anche gli strumenti di intaglio. Ciò che più colpisce è l’apparente fragilità e l’equilibrio instabile di questa gabbia scarnificata dove Toris ha probabilmente rappresentato la propria esistenza cercando di riunificare la dispersione dei suoi pensieri, sogni e ricordi.
La diffidenza della cultura italiana verso produzioni artistiche non formaliste non ha creato condizioni favorevoli a un’accoglienza del concetto di Art Brut. Negli stessi anni in cui Dubuffet mette assieme la sua portentosa raccolta, si attesta in Italia tra il 1950 e il 1970 invece, attorno al caso di Ligabue, la più rassicurante nozione di arte “naïve”, che trova il suo territorio d’elezione nella pianura padana soprattutto per merito delle esplorazioni di Cesare Zavattini, la cui collezione è esposta dal 1968 al Museo nazionale delle arti naïves di Luzzara in Emilia Romagna, e per l’azione promozionale di Dino Menozzi con la sua rivista “L’arte naïve” (1973-2002), che nel tempo si aprirà anche all’arte marginale in senso più ampio. Un confluire di sensibilità culturali diffuse, che non si è verificato per la più ruvida Art Brut, ma che, esaurita l’originaria spinta ideologica populista, ha finito per produrre un nuovo accademismo mercantile.
Nella prassi non sempre risulta agevole classificare gli artisti, e alcuni ritenuti a suo tempo naïf rientrano oggi nelle collezioni di Art Brut. Come Pietro Ghizzardi (1906-1986), pittore contadino scoperto da Zavattini, che per la grezza intensità erotica delle sue figure femminili e i mezzi poveri utilizzati - cartoni di recupero, ritagli di riviste, nerofumo, colori tratti da erbe - ha una qualità perturbante riconosciuta come brut. Ma, dato che la nozione di Art Brut continua a fare fatica a essere accettata nella terminologia critica italiana, la definizione più in uso in Italia resta quella di “arte irregolare”, termine coniato dal critico Bianca Tosatti per superare le contrapposizioni e proposto in alcune grandi mostre dal 1997 al 2006.