di cui era uno dei protagonisti - Vittorio Corcos consegnava alle Gallerie fiorentine l’Autoritratto che
gli era stato chiesto dal potente Corrado Ricci allora direttore generale nel Ministero della pubblica istruzione. Aveva guidato gli Uffizi dal 1904
al 1908 e ora intendeva ampliare la collezione degli autoritratti. Questa decisione incontrò l’ostilità di Ugo Ojetti che non approvava l’invito
rivolto in quella occasione appunto a Corcos e a Filadelfo Simi. Forse non era d’accordo per la presenza di quest’ultimo, dati invece i rapporti
sempre molto cordiali intrattenuti con il primo. Ne aveva anche scritto con favore in diverse occasioni e lo aveva addirittura intervistato nel 1907
sull’“Illustrazione Italiana”. Era stato proprio Ojetti a notare come Corcos fosse stato solito trattare di sé e della propria opera con la
discrezione con cui ora si era rappresentato al di là di ogni intento autocelebrativo.
Per questo dipinto, che considererà tra i suoi più
riusciti, aveva preferito indossare il dimesso abito da lavoro, uno spolverino chiaro che diveniva invece oggetto di un brano efficace di pittura
luminosa, fatta di veloci pennellate, stese di getto, in modo da creare un riuscito contrasto con il volto più definito, dallo sguardo concentrato,
rivolto a quel pubblico di cui aveva sempre cercato il consenso. Il ritrattista di successo, impegnato dalle corti e conteso dalla mondanità più
esclusiva, si presentava adesso, con ormai alle spalle una lunga e fortunata carriera, in un’immagine cordiale, quasi feriale dove appariva appagato
nei suoi cinquantaquattro anni ben portati, con «i gran baffi bianchi» che «arricciati col ferro, erano diventati biondi pel gran fumare». Così lo
ricorderà nelle sue popolari Cose viste (1934) proprio Ojetti, colpito dal «bell’uomo, lindo ed elegante, il volto ovale, il mento rotondo, la
carnagione rosea, […] i capelli candidi, lisci e lucidi, la memoria sicura, le maniere squisite, senza pose d’artista, l’epigramma pronto quanto il
complimento». La conclusione dell’affettuoso ritratto era che Corcos «era fatto, come la sua pittura, per piacere».
Il pittore livornese era
apparso altrettanto olimpico, ma fermato in un’immagine più sfaccettata, nella penetrante e spiritosa “istantanea” che nel 1904 a firma «Kodak» gli
aveva dedicato nel “Marzocco” - la prestigiosa rivista di cui lui stesso era stato collaboratore - il direttore e amico Angelo Orvieto. «Con la
testa bianca», aveva scritto «un po’ inclinata da una parte, i baffi arditamente arricciati, atteggia la fisionomia ad un sorriso di soddisfazione,
come se dinanzi ai suoi occhi carezzevoli passassero - lunga e leggiadra teoria - tutte le belle signore che egli ritrasse sulla tela. È il pittore
delle eleganze femminili, com’è l’uomo di tutte le eleganze. Sulla sua bonarietà livornese il pariginismo ha disteso una vernice indelebile: una
graziosa vernice di spirito e di scetticismo che è diventata una corazza impenetrabile. E non c’è siluro di critica o d’invidia che sia riuscito a
intaccarla. Così più incanutisce, più si fa giovane. Da qualche anno è in continui viaggi fra Roma, Firenze, Venezia e Milano: da per tutto trova le
belle donne che vogliono diventare bellissime e quelle altre che, più modeste per forza, si contentano di diventar belle. La sua tavolozza è una
miniera di felicità per le leggiadre creature e una miniera non simbolica per lui. Ma come se non gli bastasse dipingere dalla mattina alla sera,
scrive, fa bozzetti e conferenze. È un patriarca mondano. Patriarca per sentimento, mondano per professione. Nelle riunioni eleganti, nelle feste da
ballo egli coglie e vigila i suoi soggetti sul campo della gloria. In famiglia, nella ristretta cerchia degli amici Vittorio Corcos rivela la sua
indole e l’ossatura livornese si libera della corazza parigina».
VITTORIO ED EMMA CORCOS
TRA CARDUCCI E PASCOLI
Nel 1913 - siamo nell’anno inquieto, alla vigilia della Grande guerra che avrebbe travolta l’epoca euforica della Belle époque