fra il tramonto dell’Ottocento e l’alba del Novecento si afferma, in un ambito artistico particolarmente
raffinato e disincantato, una nuova sensibilità: è quello che viene chiamato decadentismo. Caratterizzato da un’inversione deliberata dell’ordine
stabilito, il decadentismo ha saputo dare all’associazione artista-dimora una sfumatura particolare, moltiplicando con maestria le variazioni
decorative. Tra questi singolari “poeti dell’arredamento”, il conte Robert de Montesquiou-Fézensac realizzò interni di spettacolare introversione.
La dimensione evocativa dell’ambiente non era mai entrata nelle varie forme d’arte in una maniera così ricca di nuove suggestioni come alla
fine dell’Ottocento. Stato d’animo più che scuola, la “decadenza” rivendica l’insorgere di un’estetica estremista. Attira un’élite di artisti
stanchi della “volgarità” del naturalismo.
Tutto ha inizio nel 1884 quando compare Jean Floressas des Esseintes, il protagonista del romanzo
À Rebours che si chiude in una sua nevrotica Tebaide. Il romanzo di Joris Huysmans diventa subito la bibbia di un nuovo movimento.
Come des Esseintes, Montesquiou era ossessionato dalla minuziosa messa in opera di abitazioni dedicate a se stesso, così come dall’idea del
rifugio in una perfezione artificiale. Porta il suo anticonformismo nell’ambiente privato, trasformandolo in qualcosa che si collochi all’estremo
opposto dello spirito borghese: in arte. Sappiamo quanto la letteratura debba a questo aristocratico dandy: alcuni tratti della sua personalità
hanno ispirato la figura del barone di Charlus di Marcel Proust. L’immagine ricercata e vanitosa che dava di sé esercitava una forte attrazione per
i cronisti del tempo. Grazie alla biografia dovuta a Philippe Jullian (Robert de Montesquiou, 1964), il noto arbitro del gusto suscita oggi
un nuovo interesse per l’ampia iconografia di cui fu l’ispiratore, come il ritratto dipinto da Boldini (1897) e il bronzo di Troubetzkoy (1907). Il
conte «creava bellezza soltanto per il suo personale piacere», scrisse Maurice Barrès. È questo il Montesquiou - sobriamente eccentrico, che
trasformava gli oggetti di uso quotidiano in opere d’arte - che ci interessa perché la sua cura per l’aspetto decorativo contribuì ad abolire i
confini tra i diversi campi della creazione artistica. Nelle sue memorie, Les Pas effacés (1923), Montesquiou ammette di considerare
«queste bizzarre decorazioni di muri e mobili come dei testi letterari e musicali». Egli riconosceva la propria «mania per gli appartamenti
decorativi », poi trasformatasi in una «passione più meditata e raffinata». Seguendo l’esempio di Goncourt, nella sua Maison d’un artiste (1881), descrizione minuziosa del proprio attico di Auteuil, l’esteta e scrittore ci offre un repertorio preciso delle proprie abitazioni: il
sottotetto del quai d’Orsay, l’appartamento della via Franklin, la villa Montesquiou, il Casino delle muse e il Palazzo rosa. Passando da stanze
sovraccariche a spazi più spogli, questo vero maestro di bellezza segue precise regole estetiche. Riflette sulla necessità di costruirsi un rêvoir
(un “sognatoio”) baudelairiano: circondarsi di oggetti d’arte per accentuare le proprie sensazioni. Persegue e suggerisce di cercare sempre un “non
so che” di simbolico, per cui un interno dovrebbe essere l’illustrazione di un’idea: un insieme di «oggetti partecipi di un sottile colloquio che
coinvolga l’anima». In effetti, i suoi vari interni non sono mai stati banali collezioni storiche di mobili e oggetti. Ognuno dei suoi mosaici
affettivi è il risultato di elementi disparati, la cui originale combinazione riflette uno stato d’animo. Osa accostamenti fino ad allora mai
azzardati. Per lui, l’arredamento di una stanza deve raggiungere lo statuto di opera d’arte.
Montesquiou trasformava gli oggetti di uso quotidiano in opere d’arte
La prima dimora parigina del conte, soprannominata il “tempio di Salomone”, si trasforma presto in ciò che il suo ideatore chiamava la “mia” casa
d’artista. Un’atmosfera inebriante, miscela di macabro e giapponeserie, caratterizzava questo luogo. Una scala a chiocciola conduceva alla sala da
pranzo tipo giardino in cui una collezione di bicchieri colorati, sistemati davanti a una finestra, formava una vetrata: «Questa stanza era
diventata il mio oratorio». La stanza centrale, in cui la luce filtrata dai vetri rossi faceva luccicare le pareti d’oro, era dedicata al sole:
sembrava di essere chiusi «in uno scrigno di lacca dalle tinte dorate». Nella contigua “camera della luna” tutto rimandava alla luce lunare: le
pareti erano dipinte in blu notte, ardesia, argento e grigio topo. Una sorta di angolo di cattedrale, arredato con un pulpito Luigi XV, testimoniava
il suo misticismo. Nella stanza da bagno troneggiava una vasca rivestita di ceramica turchese. Montesquiou ricorda che Mallarmé la descrisse a
Huysmans che si ispirò anche al poeta per il suo romanzo.
Villa Montesquiou a Versailles: un pied-à-terre
«piacevole per passarci le vacanze e insufficiente per passarci la vita»
Nel 1890, il conte si trasferì a Passy, in un appartamento al piano terra composto da due salotti, una camera da letto, la “stanza dell’ortensia” e una sala da pranzo. La vera curiosità era il giardino, delimitato «da una specie di serra-biblioteca per i libri preferiti e al contempo piccolo museo di ritratti dei loro autori». Nel 1894, il conte si trasferì a Versailles e si stabilì nella villa Montesquiou. È inutile soffermarsi su questo pied-à-terre che il poeta definiva «piacevole per passarci le vacanze e insufficiente per passarci la vita». Il Casino delle muse a Neuilly, dove si trasferì nel 1900, merita invece la nostra attenzione. Su un lato un chiostro, sull’altro la facciata, con una rotonda a vetri, che si apre su un piazzale semicircolare. Entrando, un ampio vestibolo con una scala a due rampe. In cima, si apre un salone simile al «parlatorio di un capitolo abbaziale». A destra, la sala da pranzo con alcune tele di Whistler. A sinistra, la biblioteca ravvivata dalle rilegature dei libri: i più amati al centro, in una vetrina che l’esteta definisce il suo “museo sensibile”. Il secondo piano è «colorato da delicate sfumature malva». Il “salone delle rose” è decorato, alle pareti, con un antico ricamo: alle rose del tessuto si mescolavano quelle reali. Accanto, la camera con un letto ornato da una chimera cinese. Infine, una galleria giapponese che dà sul terrazzo semicircolare. Questa casa fu la più amata da Montesquiou, che però finì per lasciarla per il Palazzo rosa, costruito nel 1895 da Ernest Sanson. Era una “follia” in marmo rosa davanti a cui zampillava una fontana. Il conte racconta che quando lo vide esclamò: «Se questa casa improbabile, irraggiungibile eppure reale, non è mia domani stesso, morirò!».


