c'è un museo che ha la fortuna di avere come ufficio stampa Marcel Proust, Tracy Chevalier e Donna Tartt. È il
Mauritshuis dell’Aja. E questo è potuto accadere perché, a volte, la notorietà di un’opera d’arte è legata (anche) alla fortuna di un romanzo, alla
scelta di uno scrittore di imperniare un episodio o un’intera struttura narrativa proprio su quella singola opera.
Marcel Proust incontra per
la prima volta la Veduta di Delft di Jan Vermeer (1660-1661 circa) all’Aja, il 18 ottobre 1902; ha ventuno anni, è andato lì per
Frans Hals, in realtà, ma la Veduta diventa per lui «il quadro più bello del mondo». La rivedrà nel 1921 a Parigi, in una mostra al Jeu de Paume,
vicina alla Lattaia e alla Ragazza dall’orecchino di perla, dello stesso artista. Ma è sulla Veduta e su questo secondo incontro
che costruisce le pagine in cui lo scrittore Bergotte - uno dei protagonisti della Recherche (in La prisonnière, pubblicato postumo nel
1923) -, morente, rievoca il quadro e lo indica come modello narrativo ideale, unico nell’arte di comunicare emozioni profonde in un dettaglio, come
in «quel piccolo lembo di muro giallo» che appare fra le case di Delft illuminato da un raggio di sole.
Nel 1999 la scrittrice americana Tracy
Chevalier pubblica un romanzo di enorme successo, La Ragazza con l’orecchino di perla (il dipinto di Vermeer è del 1665- 1667). In questo
caso, l’intero racconto è centrato sulla protagonista - la ragazza, appunto -, di cui si immaginano storia, emozioni, gli ambienti in cui vive; si
suggerisce che possa trattarsi di una giovane domestica che il destino ha voluto rendere immortale per mano del suo “padrone”, Jan Vermeer.
Il
romanzo Il cardellino esce nel 2013, vince il premio Pulitzer nell’aprile scorso e da un anno è in testa alle classifiche di vendita di
mezzo mondo. L’autrice, ancora un’americana, Donna Tartt, lega le vicende di un dipinto olandese del Seicento - Il cardellino (1654),
appunto, di Carel Fabritius - a quelle del protagonista di un romanzo ambientato ai nostri tempi. Da un lato c’è un’identificazione del protagonista
con la fragile bestiola, tutta «piumette e fragili ossicini», dall’altro c’è il quadro stesso che viene in possesso del giovane: un’esplosione in un
museo uccide la madre del protagonista e fa sì che il dipinto giunga nelle sue mani; esplosione che rievoca quella che nel 1654 distrusse mezza
Delft uccidendo fra gli altri proprio Carel Fabritius, uno dei modelli di Vermeer, che abita poco distante da lui e si salva per miracolo.
Per
una rara coincidenza i tre dipinti si trovano tutti nello stesso museo, al Mauritshuis, appunto; che ha a sua volta potuto fondare parte della sua
fortuna su questo fortuito e felice gioco del destino.
Il museo ha riaperto alla fine dello scorso mese di giugno dopo due anni di chiusura
per restauri, ristrutturazioni e riallestimenti; il costo dei lavori è stato di 30 milioni di euro (non un giorno né un euro in più di quanto
preventivato in sede di progetto…). Buona parte dei costi è stata coperta dai proventi di un tour mondiale (Giappone, Stati Uniti e Italia, a
Bologna) che ha esposto una selezione di opere del Secolo d’oro olandese guidata dalla Ragazza con orecchino: 2.200.000 visitatori in tutta
la tournée.
Oggi il museo ha raddoppiato i suoi spazi e prevede un aumento di visitatori del 25% circa (fino alla chiusura erano circa
200.mila l’anno). L’aumento di metratura è stato realizzato raddoppiando il numero degli edifici; alla sede storica è stata infatti annessa
un’adiacente palazzina (la Royal Dutch Shell Wing), di epoca e stile déco, che adesso ospita uffici, ristorante, biblioteca, bookshop, una sala
convegni, spazi per laboratori e una piccola area per esposizioni temporanee. Il collegamento fra i due edifici, per non alterare il contesto urbano
del centro della città olandese, sede del governo, è stato realizzato interamente sotto il piano stradale. Progetto e lavori sono stati diretti
dallo studio dell’architetto Hans van Heeswijk (già artefice dell’Hermitage di Amsterdam e del progetto in corso per il nuovo Van Gogh Museum nella
stessa città).
La palazzina più antica, che ospita la collezione, è stata restaurata negli esterni e negli interni (tappezzerie e illuminazione), ma
sostanzialmente appare integra: un edificio olandese del Seicento che ospita una raccolta di dipinti olandesi del Seicento. Duecentocinquanta in
tutto quelli esposti (su una dotazione di ottocento). Con il Rijksmuseum di Amsterdam, la Gemäldegalerie di Berlino e la National Gallery di Londra
il posto migliore per vedere tutti insieme tanti dipinti del periodo aureo dell’arte olandese.
L’edificio fu compiuto nel 1644 dagli
architetti Johannes van Kampen e Pieter Post. Era la residenza del conte Johan Maurits van Nassau-Siegen, governatore del Brasile (allora colonia
olandese), che pagò parte dei lavori in sacchi di zucchero, tanto che il palazzo fu chiamato per un po’ la Casa dello Zucchero. I lavori furono
seguiti da un caro amico di Johan Maurits, Constantijn Huygens, poeta, diplomatico e tra i primi a scoprire il talento del giovane Rembrandt.
L’edificio è un cubo dorato classicheggiante, ispirato ai trattati di architettura di Vincenzo Scamozzi.
Dopo la morte del primo proprietario
l’edificio passò di mano fino a che nel 1822 divenne sede della collezione reale d’arte messa insieme dalla casa di Orange, fu aperto al pubblico e
oggi è proprietà dello Stato. Il momento peggiore, per la collezione, fu quando nel 1795 le truppe napoleoniche invasero il paese e trasferirono al
Louvre tutte le opere. Tornarono in patria dopo la battaglia di Waterloo.
I tre dipinti citati all’inizio, tra XX e XXI secolo si sono
oculatamente passati il testimone e il compito di attrarre generazioni sempre nuove di visitatori, ma non sono i soli motivi di attrazione del
museo. Il Secolo d’oro della pittura olandese ha moltiplicato i generi pittorici esistenti in Europa - ritratti, paesaggi, scene domestiche,
“tronies” (teste immaginarie tipizzate da un’espressione o un’acconciatura particolari), vedute di mare, scene invernali, fiori, nature morte,
tavole imbandite -, e la collezione del Mauritshuis è uno specchio fedele di questa varietà.
Tra le opere più note, il probabile ultimo
Autoritratto (1669) e la Lezione di anatomia del dottor Tulp (1632), entrambi di Rembrandt. Il toro, di Paulus Potter (1647), specialista
in bovini che si stagliano sulla pianura olandese (una grande passione per il pubblico del tempo, e ancora nell’Ottocento la vera vedette del
museo), e non si tratta di un quadretto di piccole dimensioni: misura 339 per 235,5 centimetri, il bestione è più o meno a grandezza naturale.
Come canta il vecchio, così il giovane suona il piffero (1665 circa) e l’ammiccante Mangiatrice di ostriche (1658-1660 circa), di
Jan Steen, sono tipici della verve narrativa, aneddotica e attenta ai dettagli del suo esecutore. Di Frans Hals è un Ragazzo che ride (un
“tronie”, 1625 circa) di esemplare naturalezza. Sul ghiaccio (1610 circa) è una delle caratteristiche composizioni paesaggistiche invernali
di Hendrick Avercamp, piene di gente a passeggio, bambini che giocano, pattinatori che scivolano sullo sfondo di un cielo grigio.
Tra i
dipinti di altro contesto vanno citati almeno il Compianto di Cristo di Rogier van der Weyden (1460 circa), il
Ritratto di Robert Cheseman di Hans Holbein il Giovane (1533), Il giardino dell’Eden con il Peccato originale dipinto in collaborazione fra
Jan Brueghel e Peter Paul Rubens (1615 circa).
Tutte opere in attesa di essere scoperte da qualche narratore ispirato.



