stando all’argomento d’un libro epocale come il trattatello di Barbey D’Aurevilly dedicato a George Brummel,
volume dato alle stampe a Caen nel 1845, l’essenza del dandysmo sarebbe una «felice e audace dittatura in fatto di toilette personale e di eleganza
d’abiti », riflesso però anche «di un modo d’essere» manifestatosi attraverso una studiata epifania. Un simile dato di spirito, prima che di tessuti
e tagli sartoriali, troverebbe, per il polemista francese, una propria prospettiva eroica, seppure non libera dalla dimensione della frivolezza,
nella lotta inesauribile ed eternamente aperta fra le categorie antagoniste del decoro e della noia.
Si tratta in fondo dell’oscillare di un
pendolo che non allarga il diametro di certe accademiche teorizzazioni cinquecentesche, pertinenti ugualmente ai temi della bellezza e della grazia.
E lo scrittore transalpino, nel suo “understatement” sornione, doveva esserne consapevole se, nella prefazione alla seconda stampa di quel suo
sagace volumetto, si sentiva in obbligo di accostare il freddo controllo del lord inglese - gagà per antonomasia, attorno al quale far ruotare
vagolanti pensieri - al gelido temperamento di Machiavelli “arbiter” di costumi, oltre che di diplomazia.
Guardando infatti alle pagine
celebri del Cortegiano di Baldassar Castiglione o delle Vite degli artisti di Giorgio Vasari, quelle - per intendersi - dedicate alle
qualità retoriche della sprezzatura e della licenza, ci si trova appunto ingabbiati in una medesima, stringente dicotomia: se per il dandy la retta
via è stretta fra i bordi incerti del tedio e della convenienza, per l’aristocrazia spirituale del secolo decimosesto la prova provata
dell’eccellenza e dell’esattezza del gusto deve essere similmente ricercata nel contrasto fra regola e libertà, fra stento e naturalezza. Non a
caso, in un ritratto raffaellesco di Giuliano de’ Medici, il cui originale è perduto ma che si conosce in copia al Metropolitan Museum di New York,
il protagonista del dialogo letterario imbastito dal Castiglione all’inizio del Cinquecento - certo il più spregiudicato e coltivato fra i nobili
raccolti da quel tomo in conversazione alla corte di Urbino - appare vestito di un riserbo ineccepibile. E mentre denuncia una consapevole
disinvoltura nella posa di tre quarti o nella negligenza artificiata della “mise” signorile e non sfarzosa, si distanzia sensibilmente, nel
temperamento quanto nelle predilezioni, dal proprio nipote Lorenzo (il figlio cioè di Piero lo Sfortunato, al pari di Giuliano erede diretto del
Magnifico), effigiato dalla mano del Sanzio in un’opera conosciuta anch’essa solo grazie a repliche antiche (una oggi agli Uffizi): il primo opta
per un nero che annuncia i tempi nuovi, certificando l’impeccabile giudizio del moderno gentiluomo; il secondo ancora indossa damaschi d’oro e
sfumature d’amarena, legato nella tavolozza delle scelte alla “vague” di una stagione al tramonto.
Lo stesso Castiglione, in un’altra icona
stavolta autografa di Raffaello, non dirazza dalla scala rigida dei toni, dal grigio al bruno: pertanto, laddove il suo volto acceso di intelligenza
e vivacità accerta - addirittura nel taglio regolare della barba di navigato mondano - la sicura risolutezza nel comporre una divisa inappuntabile,
le nervose sagacie della pittura testimoniano di come la sprezzatura potesse essere intesa, nell’epoca della Maniera, nelle forme di un primato
tanto della persona quanto della pittura stessa.
Stirato verso squisiti effetti di virtuosisimo è anche il “ductus” di un altro ritratto di
affascinante giovane uomo, appena successivo alle sorprendenti prove dell’Urbinate: si pensa qui al pallido ragazzo consegnato ai posteri da una
tavola di Rosso Fiorentino, oggi a Napoli. La superficie di quel dipinto, pur patita dal trascorrere dei secoli, rimanda infatti ancora a una
conduzione rapida e senza sforzo, quasi bozzata nella sua limpida sfida ai tempi dell’esecuzione: e si fa in questo profezia della gestualità
difficoltosa, astratta, attribuita dal pittore all’efebo non ancora adulto e tuttavia ambiguamente sortito da una lunga fanciullezza; posa
concentrata nell’impossibile nonchalance dell’arco spezzato del suo braccio sinistro.
Che tali caratteri dovessero essere presenti nell’aria
dell’epoca lo documenta anche una diversa polaroid scattata negli stessi anni dal raffinato Parmigianino: un viso, nelle raccolte londinesi della
National Gallery, singolare perfino agli occhi di un moderno per flemmatica sentimentalità ed estenuata stanchezza del vivere. La testa d’uomo,
distratto dalla lettura di un libro e catturato in una vera e propria istantanea dal Mazzola, taglia in diagonale la tela in accordo col gualcito
disordine di un total look, coerente e severo: ma la sua carica espressività, nel cipiglio moro degli occhi e del mento, colora il nero del giubbone
e del copricapo di una spigliatezza nobile e aerea, dimentica della sobria compostezza imposta al genere del ritratto.
Ancora una volta l’arte
asseconda il “mood” del proprio soggetto, smussando in linee sdilinquite e sinuose l’angolare sfinimento di quello studente svogliato. Un matrimonio
ennesimo fra acutezze di forma, imbastite col pennello o con lo chic della persona. D’altronde, per il secolo XVI, la grazia di uno stile
individuale risiede essenzialmente nell’abile recita di una semplicità senza cure: almeno laddove quella stessa leggiadria non sia stata impartita
all’uomo (o all’artista) come dono celeste, concesso per capriccio da un dio benevolo.
Rara circostanza, quella della benignità sovrumana nei
confronti della bellezza dei terrestri, che sembra imprigionata - quasi per incanto - da un nuovo specchio offerto da Tiziano a un rampollo della
casata Farnese sempre sugli anni Venti del Cinquecento. Nel dipinto della National Gallery di Washington in cui sorride timido il volto di Ranuccio,
figlio di Pier Luigi e di Gerolama Orsini, il sortilegio dell’eleganza innata traluce di sotto al pesante e sproporzionato manto dei cavalieri di
Malta, che il fanciullo indossa con divertita trascuratezza: medium della spensierata levità di un’immagine che si vorrebbe al contrario
ufficialissima, la pasta dei colori si fa rete sottile di brillii e riflessi, ad associare la preziosa selezione delle stoffe all’allegra
sfrontatezza di un gentiluomo per privilegio di nascita.
la guerra si combatteva ormai sul piano del gusto
piuttosto che su quello del lusso
Un’analoga apparizione, simbolo di una controllata coscienza della forza della propria figura, è descritta - questa volta in parole - da Benedetto Di Falco nel suo resoconto di una festa nuziale celebrata a Napoli nel palazzo del duca di Termine, contenuto in un volume del 1530 titolato Trattato di amore. In occasione di quella solennità, il marchese di Pescara - e cioè Francesco Ferrante d’Avalos, già capitano imperiale al servizio di Carlo V - «illustrissimo segnor […] di giusta persona e d’una segnoril bellezza, con un marzial viso degno d’imperio, con un portamento onestissimo », scelse di presentarsi «vestito di nero, come usano vestire imperatori e re»: opzione - ripetuta pel suo abito funebre - tanto più singolare in quanto, a quello stesso ricevimento, assistevano «prencipi e duchi, ch’erano coperti in oro». Il corredo del cadavere è stato recentemente riportato alla luce e si trova nella chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli.
Proprio una simile stravagante toletta - “pura avanguardia”, si direbbe oggi, in rapporto all’austera moda spagnolesca che da quel momento avrebbe invaso le corti italiane - garantì, in un baleno, al nobile iberico la fama di un Cesare «di spada e vertù»: imponendo la sua autorevolezza al pari delle molte, strabilianti imprese militari. E chiarendo in che modo, nel campo dell’eleganza, la guerra si combattesse ormai sul piano del gusto piuttosto che su quello del lusso, in anticipo perfino sull’epocale massima novecentesca del “less is more” (valida, si sa, sia per l’architettura sia per l’“haute couture”).


