della Street Art d’oggi è rappresentato dal muralismo internazionale del primo dopoguerra. Esemplari in tal senso
sono la Francia (ove nel 1935 si tenne il primo Salon de l’Art Mural) ma soprattutto il Messico postrivoluzionario e l’Italia fascista; paesi che, a
latitudini e su fronti politici opposti, condividevano entrambi l’idea che l’opera d’arte murale dovesse essere vissuta dal popolo come patrimonio e
valore collettivo, attuata pertanto con finalità educative quanto propagandistiche.
In Italia un primo impulso venne dato agli inizi degli
anni Trenta con due esemplari mostre, i cui allestimenti riflettono la nuova concezione del rapporto tra arte e architettura che si andava
maturando: la Mostra della Rivoluzione Fascista (Roma, 1932) e la Quinta Triennale (Milano, 1933). Una prima linea di sviluppo vide attivi
i futuristi, con il concetto di «plastica murale», già al centro nel 1934 di una specifica mostra, promossa da Marinetti, Fillia, Prampolini e De
Filippis. Riportiamo un breve passo del catalogo: «La plastica murale supera e abolisce la vecchia pittura murale e gli affreschi per spaziare nelle
numerose possibilità espressive e illustrative offerte dai polimaterici e dalle simultaneità plastiche-documentarie-parolibere, mediante l’uso di
tutti i materiali e di tutte le tecniche. Il Comitato esecutivo propone che si svolgano dei soggetti e delle ideologie adeguate alle seguenti
costruzioni: Case del Fascio, dei Balilla, delle Piccole Italiane, aeroporti, scuole, Palazzi del Governo, Palazzi delle Poste».
La seconda
linea, più corale e monumentale, è quella sviluppata da Mario Sironi, autore, nel 1933, del Manifesto della pittura murale, sottoscritto anche da
Funi, Carrà e Campigli. Secondo Sironi, dalla pittura murale può sorgere lo «Stile fascista», al contempo aulico e moderno; a questo, e non al
soggetto in sé, egli affida la funzione educatrice della propria arte. Nel corso degli anni Trenta Sironi ottenne numerosi incarichi pubblici, come
il grande dipinto L’Italia tra le arti e le scienze (1935) per l’Aula magna della nuova Città universitaria di Roma, opera documentata
anche da schizzi, studi, bozzetti e grandi cartoni preparatori che attestano anche il suo modus operandi.
Un analogo gigantismo e finalità
educatrici caratterizzano, su fronti politici opposti, la ricca stagione del muralismo messicano. Recuperando l’esperienza dei dipinti murali della
cultura precolombiana - come quelli del sito archeologico di Bonampak, nel Chiapas, di epoca maya - i muralisti danno vita a raffigurazioni
ambientate nel nuovo Messico della rivoluzione zapatista. Rifuggendo da ogni ermetismo, i protagonisti di questa stagione - José Clemente Orozco,
Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros - sviluppano un’arte murale fortemente ideologica e narrativa, educativa e popolare; un’arte che è anche libro
di storia - si veda il murale di Rivera con la Storia del Messico (1929-1951), presso il Palazzo nazionale di Città del Messico - e chiave di
lettura per comprendere l’attualità, come accade nel feroce attacco al nazifascismo, presente nel Ritratto della borghesia (1939) dipinto
da Siqueiros.
Che tali opere siano raffigurate sulla strada o, come nella quasi totalità dei casi, all’interno di palazzi, davvero poco
importa: la loro essenza è squisitamente pubblica e collettiva, quasi una sorta di “Biblia pauperum” su muro dove apprendere il passato e formarsi
politicamente sul presente.
La stagione del muralismo messicano continuò negli anni Cinquanta con artisti come Alfredo Zalce, Rául Anguiano e
José Chávez Morado e per molti versi continua ancora oggi con lo stesso spirito “engagé”: esemplare è a tal proposito il murale dipinto nel 1998
sulla facciata della Casa municipale di Taniperla, nel Chiapas, distrutto lo stesso anno dall’esercito messicano perché raffigurava la (felice) vita
quotidiana in una comunità zapatista. In segno di solidarietà con la popolazione del Chiapas, il dipinto fu poi replicato in molte città del mondo.

