gli anni
settanta-novante

Sempre in America Latina, nel Cile di Allende,

si assiste a partire dal 1970 a una nuova ondata di dipinti murali a scopo didatticopolitico che segnano profondamente il panorama urbano cileno. Nel 1973, con il golpe del generale Augusto Pinochet, i murales realizzati dai giovani di Unidad Popular - in particolare quelli a opera della Brigada Ramona Parra - vennero distrutti e molti dei loro autori torturati e assassinati. Alcuni artisti esuli diedero vita in Europa a dipinti murali in solidarietà al popolo cileno, riprendendo le iconografie d’oltreoceano; per l’Italia, ricordiamo i numerosi murales della Brigada Pablo Neruda e della Brigada Luis Corvalán, alcuni dei quali recentemente restaurati per il loro alto valore storico, oltre che artistico.

Muri contro

Il murale degli anni Settanta è quasi sempre politico ed è vissuto in maniera collettiva, portato avanti da circoli culturali, associazioni di artisti e perfino scuole e comitati di quartiere. In Italia a essere coinvolte furono soprattutto le grandi città, da Milano a Roma, da Torino a Bologna, pur se non mancano significativi esempi anche in piccoli comuni, come nel caso di Orgosolo, in Sardegna. Tra i vari volumi che documentano in maniera militante il divenire del muralismo italiano degli anni Settanta spicca per qualità Murales (Bologna, Grafis, 1977), selezione attinta dallo straordinario reportage fotografico - oltre diecimila le immagini raccolte - di Cesare Grossi e Silvia Buscaroli, pubblicata grazie alla collaborazione di artisti del calibro di Matta, Angeli, Dorazio e Ceroli. Moltissimi i temi toccati, sebbene tutti segnati da una profonda presa di posizione politica: il nemico, dal fascismo alla DC; la rivolta delle masse e dei paesi oppressi; i simboli del potere e quelli della lotta; la quotidianità del proletariato; la festa; la cronaca; la satira del potere; la solidarietà internazionale... il tutto realizzato in un’estrema varietà stilistica, che dal naïf giunge fino all’iperrealismo.
Rispetto ai dipinti murali degli anni Trenta, queste opere legate alla contestazione sono spesso accompagnate da scritte e slogan. Il muro scritto è, se vogliamo, l’alter ego del muro dipinto e meriterebbe una storia a parte, che dall’età antica - alla quale abbiamo già accennato - giunga alla contemporaneità, passando per le scritte ufficiali del Ventennio fascista e curiosità come i graffiti dei pastori indagati recentemente da etnoarcheologi come Marta Bazzanella e Luca Pisoni.
Ai fini del nostro discorso non interessano però né le scritte murali dell’ufficialità, né quelle dell’oscenità, né quelle pratiche, né tantomeno quelle private; piuttosto, la scritta murale come luogo della creatività. Una creatività vissuta, nel decennio 1967-1977, in maniera perlopiù collettiva, e dunque anonima. Esemplari a tal proposito le scritte murali del Maggio francese: «Dimenticate tutto ciò che avete imparato, cominciate a sognare», «Sotto il pavé, la spiaggia», «Decreto lo stato di felicità permanente», «Siate realisti, chiedete l’impossibile!», «Corri compagno, che il vecchio mondo ti sta correndo dietro»... sono solo alcune delle moltissime scritte creative che si alternavano a slogan politici più tradizionali. A questi motti fanno eco quelli italiani degli Indiani metropolitani del 1977, alcuni dei quali giocano ironicamente sull’idea stessa di scritta murale: «Voglio fare una scritta», «Questo muro era bianco», «Fate murales, basta con le scritte», «I muri bianchi mettono tristezza», per fare solo qualche esempio. L’uso poetico-creativo di scritte murali, inaugurato negli anni della contestazione, caratterizzerà in seguito il lavoro di alcuni artisti della Street Art d’oggi, come nel caso del milanese Ivan.
La scritta murale, infine, tra gli anni Sessanta e Settanta venne utilizzata anche da alcuni noti artisti visivi per lavori d’indagine concettuale, perlopiù in forma di libro d’artista. Tra questi ricordiamo almeno gli italiani Sarenco e Franco Vaccari (Le Tracce, Bologna, Sampietro, 1966 e Streep-street, Parigi, Agentzia, 1969).

Per quanto predominanti, murales e scritte non furono gli unici mezzi di comunicazione creativa murale utilizzati negli anni della cosiddetta Controcultura (1967-1977). Sempre a metà strada tra legale e illegale, vanno perlomeno ricordati i manifesti - da quelli della California più psichedelica a quelli europei degli studenti in rivolta, su tutti quelli del parigino Atelier Populaire, entrati e a ragione in ogni storia della grafica che si rispetti - e non da ultimo i giornali murali. Questi, stampati con le più diverse tecniche, avevano una distribuzione assolutamente marginale nei circuiti incerti dell’esoeditoria, mentre era più semplice trovarli nel loro luogo naturale: in strada, incollati sui muri. Riportiamo da un manualetto francese del 1972 per l’autoproduzione di questi fogli: «Non si vende, si incolla. Il nostro lettore è nella strada. Con il controgiornale i muri hanno tutti la parola. Il controgiornale si inserisce tutti la parola. Il controgiornale si inserisce nell’azione diretta. Non ha sede sociale, né tipografo, né editore. È l’unico giornale con cui non ci si può pulire il culo». Va da sé che molti di questi fogli, a metà strada tra il manifesto grafico e il tazebao, erano di qualità scadente, sotto più punti di vista. Non mancano però le eccezioni: per l’Italia, ricordiamo tre periodici, che a tutti gli effetti sono vere e proprie riviste d’artista: “Insekten Sekte” (1969-1975) di Matteo Guarnaccia, foglio vicino al movimento beat; “Puzz” (1971-1976), promosso da Max Capa e legato all’area situazionista; infine “Continuum” (1968-1970), diretto da due artisti vicini al movimento della Poesia visiva, Luciano Caruso e Stelio Maria Martini.
Per molti aspetti nel decennio 1967-1977 la strada in sé si sostituì ai musei e alle gallerie, offrendo una visione dell’arte e della poesia squisitamente pubblica e gratuita, sebbene abusiva. Se, come abbiamo visto, prevalgono azioni spontanee e illegali, che in qualche caso portano alla trasformazione vandalica di opere d’arte “ufficiali” - celebre il caso dei totem di Arnaldo Pomodoro in piazza Verdi a Bologna, rivisitati dagli Indiani metropolitani nel 1977, in occasione di una festa di strada - non mancano però eventi pubblici, entrati in qualche modo nella storia dell’arte; tra questi ricordiamo Campo Urbano (Como, 1969) e soprattutto Parole sui muri (Fiumalbo, 1967, poi replicato nel 1968), promosso da Adriano Spatola, Corrado Costa e Franco Vaccari: dieci giorni di performance e interventi urbani, dalle installazioni ai manifesti d’artista, dalle scritte creative ai murales.

Stile o vandalismo? Il writing o Graffiti Art
All’incirca negli stessi anni, oltreoceano, divampava nei bassifondi di alcune metropoli un fenomeno giovanile quanto illegale, il writing, progenitore diretto dell’odierna Street Art. Sul finire degli anni Sessanta, a New York, i giovani delle periferie iniziarono a scrivere il loro nome - reale o più spesso uno pseudonimo - sui muri della città, nelle stazioni delle metropolitane, sui treni stessi, ovunque. Queste firme arabescate - le “tags”, in gergo - venivano vergate in principio con un semplice marker, ovvero un pennarello indelebile dalla punta spessa; solo successivamente le bombolette spray presero il sopravvento, al punto da diventare l’emblema di tale pratica, dilatandone al contempo le possibilità espressive. Al termine “graffiti”, utilizzato in primis dai massmedia fin dall’inizio degli anni Settanta per designare quest’arte, è forse da preferire quello di “writing”, forte di un rimando così esplicito alla scrittura.


Keith Haring, Tuttomondo (1989), dipinto murale; Pisa, Sant’Antonio.

Un graffito al centro sociale Livello 57 a Bologna (anni Novanta).

Murales a Ca’ Foscari, Venezia (1977).

Murales a Milano (1977).